Ficha Corrida

19/01/2013

Veja como se comportam quem quer ensinar bons modos ao muçulmanos

Filed under: CIA,FBI,Isto é EUA!,Occupy Together,Occupy Wall Street,Terrorismo de Estado — Gilmar Crestani @ 10:07 pm

 

“Crackdown Occupy”. Come finanza ed FBI hanno guidato il pugno di ferro contro Occupy Wall Street

Il Federal Bureau of Investigation ha contrastato il movimento Occupy WallStreet trattandolo come una cellula terroristica dormiente sul suolo americano. È quanto emerge da documenti parzialmente desecretati e resi disponibili dal Partnership for Civil Justice Fund dai quali risulta come, per combattere il dissenso anti-capitalista di Zuccotti Park, si siano utilizzate strategie e collegamenti dello spionaggio antiterrorista. Con le grandi corporation economiche e finanziarie a giocare un ruolo fondamentale.

Washington (Stati Uniti) – L’Fbi ha scatenato una guerra contro il movimento Occupy, tanto da definire la necessità di «un piano per ucciderne la leadership attraverso l’uso di fucili da cecchino».

È quanto emerge dalle ricostruzioni giornalistiche e della rete dopo il rilascio di alcuni documenti fortemente censurati della polizia federale americana alla fine di dicembre[1] e messi a disposizione dal Partnership for Civil Justice Fund (da ora, per brevità, PCJF) che ne aveva fatto più volte richiesta tramite il Freedom of Information Act che «obbliga la pubblica amministrazione a rendere pubblici i propri atti e rende possibile a tutti i cittadini di chiedere conto delle scelte e dei risultati del lavoro amministrativo». Ma nei frammenti di 112 pagine che Mara Verheyden-Hilliard – direttrice esecutiva del PCJF – definisce «la punta dell’iceberg»[2] – c’è scritto chi ha realmente gestito, e come, il pugno di ferro (crackdown, secondo la Verheyden-Hilliard[3]) contro il movimento di protesta. Non limitandosi ai soli cecchini.

Screenshot del documento FBI-OWS 7-1175251-001, pagina 61

Possono gli Stati Uniti definire protesta sociale (derivante dagli alti livelli di disoccupazione, secondo le preoccupazioni dell’Fbi della Florida) e terrorismo – internazionale e nazionale – sullo stesso livello di pericolosità, in particolare se quei movimenti di protesta sono più volte richiamati nei documenti come «non violenti»? Possono quegli stessi Stati Uniti permettere che, in nome della “guerra al terrorismo” lanciata dall’amministrazione Bush ed incrementata sotto Barack Obama, il Federal Bureau of Investigation si trasformi in «un’agenzia d’intelligence de facto di Wall Street e di Corporate America» (cioè l’insieme delle grandi holding statunitensi, ndr[4])?

Nazisti, hacker, terroristi e manifestanti. In un documento datato 9 dicembre 2011 si parla di un incontro tenutosi due giorni prima nel quale due analisti appartenenti al Field Intelligence Group di Memphis – i cui nomi rimangono segretati – hanno presentato un powerpoint sulle minacce terroristiche da porre all’attenzione del Joint Terrorism Task Force (una partnership tra varie agenzie, tra cui l’Fbi e il Dipartimento per la Sicurezza Interna, nata per fronteggiare il terrorismo interno ed internazionale dopo l’11 settembre). Insieme alla minaccia neonazista dell’Aryan Nations[5] e a quella terroristica portata dalla diffusione di Inspire[6], il primo magazine in lingua inglese realizzato da Al Qaeda nella penisola araba – la versione yemenita del gruppo terroristico – si trovano il gruppo di hackers di Anonymous ed il movimento di Occupy Wall Street.

Se le prime tre sono – nell’ottica statunitense – preoccupazioni condivisibili, può apparire meno comprensibile l’inserimento in questa lista anche del movimento di Zuccotti Park. A meno di non tornare di nuovo a leggere le carte. Al di là dell’”effetto” cecchino.

The OWS Memo. È il 4 luglio 2011. Su Twitter l’account di Adbusters pubblica i due tweet che trovate qui sotto. Il tweet delle 8.35 è, tra i due, il più interessante. Rimanda infatti ad un articolo – Revolution in America, pubblicato da Micah M. White il 21 aprile[7] – che inizia così:

«Questa è una sincera chiamata per una Rivoluzione Americana contro la decadente, vile plutocrazia che sta guidando la nostra nazione a fondo. Super-consumatori, Sinistri banchieri, celebrità puttane (celebrity whores) che cenano con foie gras e tartufo mentre più di 25 milioni di americani sono disoccupati e 2,8 milioni di case sono pignorate. Una cricca di avidi bastardi ha trasformato l’America, il pioniere della moderna democrazia, in una corporatocrazia dove un manipolo di inumane megacorps possiedono il nostro governo, i partiti politici, i tribunali, le scuole e i media. Il ricco un per cento ci sta prosciugando e spingendo, licenziati e pieni di debiti, verso il precipizio. Solo una insurrezione contro il loro ricco dispotismo può salvarci ora».

Proprio questo tweet, stando alla ricostruzione che ne fa l’agenzia di digital marketing iCrossing (qui ne parla Il Post[8]) è il primo passaggio dell’hashtag #OccupyWallStreet. È così che nasce ufficialmente il movimento che di lì a qualche mese porterà uno dei nodi principali dell’agenda mediatica internazionale a Zuccotti Park, Manhattan, New York. Il link al quale si rimanda con il tweet porta all’articolo che è, dunque, da considerarsi il vero manifesto – o una chiamata alle armi, a voler tenere il tono di quel testo – del movimento. Non esattamente una dichiarazione di pace, come si evince facilmente dai toni dell’incipit qui riportato.

È a questo punto che, come definito a pagina 2 del documento dell’Fbi, nasce la preoccupazione verso Occupy, creato dalla Adbusters Media Foundation la quale, attraverso l’omonima rivista bimestrale nata a Vancouver, Canada, nel 1989 dall’idea di Kalle Lasn, ex documentarista anti-capitalista si pone come una delle più importanti voci critiche del capitalismo e della società consumistica globale. È a nome di Lasn, scriveva Mattathias Schwartz sul New Yorker a novembre[9], che viene registrato il primo sito del movimento, OccupyWallStreet.org (cercandolo sui motori di ricerca, inoltre, il link rimanda alla campagna Adbusters di OWS). Registrazione che faceva seguito alla mail degli inizi di giugno inviata ai sottoscrittori del magazine nella quale si sosteneva che anche l’America avesse bisogno della sua Piazza Tahrir. Attraverso la Powershift Advocacy Advertising Agency inoltre, come riporta il sito italiano della rivista, Adbusters «crea campagne di comunicazione per associazioni come Greenpeace e Amici della Terra».

Se le prime avvisaglie del movimento si registrano già agli inizi di luglio, che l’Fbi se ne interessi ad agosto – il “Giorno della Rabbia” statunitense arriverà solo il 17 settembre[10] – non è un dato così illogico, alla luce della definizione di “movimento anarchico” che il Bureau dà ad Adbusters [pagina 2] e, di riflesso, ad Occupy. Non tanto logico è che il 19 agosto se ne occupi in compagnia del New York Stock Exchange/Euronext, la borsa valori più importante del mondo e, dunque, il cuore del potere finanziario statunitense.

Il NYSE è, secondo la ricostruzione dell’agenzia federale uno degli obiettivi primari della protesta, basata sull’«interrompere, influenzare e/o chiudere (shut down) le normali operazioni commerciali del distretto finanziario» e sulla possibilità di mettere in imbarazzo i banchieri, come scrive Beau Hodai su PrWatch.org[11].

Il 4 ottobre, invece, l’Fbi si mette in contatto con un altro dei nodi principali del potere economico americano: la Federal Reserve. il Tfo (Task Force Officer), incontra [pagg.90-91] l’Assistant Vice President della Law Enforcement Unit della Federal Reserve (il cui compito è quello supervisionare il personale di sicurezza della Banca Centrale americana) di Richmond, Virginia, «per trasmettere informazioni riguardanti il movimento noto come Occupy Wall Street. Il movimento è noto per essere pacifico ma altre dimostrazioni in tutti gli Stati Uniti hanno mostrato che altri gruppi si sono uniti nel Giorno della Rabbia e nel movimento Ottobre2011». La Fed, attraverso la propria sicurezza privata, raccoglieva informazioni sugli attivisti passandole poi all’Fbi, come previsto fin dal 2005 dal Domestic Security Alliance Council, creato dall’agenzia federale per la condivisione di informazioni e la cooperazione tra questa, il Dipartimento per la Sicurezza Interna (Department of Homeland Security) e oltre 200 tra le più importanti società americane[12], che nel 2010 costituivano circa il 34% del PIL e l’8,1% degli occupati americani[13].

La collaborazione fa inoltre parte della cosiddetta “Operazione Tripwire”, creata nell’estate del 2003 per «identificare potenziali cellule terroristiche dormienti negli Stati Uniti» attraverso il controllo sui viaggi, sulle transazioni finanziarie o sull’acquisto di dispositivi che possano essere «precursori di terrorismo», come scriveva all’epoca Greg Krikorian sul Los Angeles Times[14].

In base alla vecchia massima – declinata in funzione anti-terrorismo – che prevenire sia meglio che curare, i documenti rendono nota anche la rete di spionaggio (e gli abusi, come li definisce il PCJF) del Campus Liaison Initiative [pag.51], istituito nel 2008 come raccordo dell’Fbi con college e università americane per monitorare l’attività degli studenti – sia fisica che virtuale – al fine di evitare che questi possano essere cooptati da gruppi terroristici. Tale iniziativa ha di fatto creato una rete tra agenti federali e personale di college ed università (preferibilmente personale di sicurezza) che condividono informazioni sugli indicatori di minaccia, creando così una mappatura dell’attività degli studenti, indipendentemente dal grado di pericolosità o “terrorismo” che questa ha. Alcuni degli addetti alla sicurezza sono inoltre membri effettivi della National Joint Terrorism Task Force, che dirige tutte le 104 Task Force antiterrorismo nate dal 2002 all’interno dell’Fbi.

Dossieraggi. 8 ottobre 2011. [pag. 85] L’Fbi incontra una informatrice (la cui identità viene segretata nei documenti, identificata semplicemente come “dimostrante”, "protestor" nei documenti), come confermato anche dalla ricostruzione del Des Moines Register[15]) appartenente al movimento Occupy Des Moines, che mette al corrente il Bureau sui commenti del gruppo che, comunque, non permettono di configurare future minacce alla sicurezza pubblica o attività criminali. Per assicurare un miglior monitoraggio del gruppo, la donna ha messo a disposizione anche i propri dati e-mail e Facebook [pag. 86].

L’attività di dossieraggio, stando a quel poco che è possibile ricavare dal documento approvato il 12 ottobre [pag. 41] sarebbe però opera anche degli attivisti. Un analista federale ha riportato come gli amministratori delegati di Goldman Sachs e JP Morgan Chase dell’epoca (rispettivamente, Lloyd Blankfein e Jamie Dimon, quest’ultimo l’Ad statunitense più pagato nel 2011[16] con i suoi 23,1 miliardi di dollari) attraverso un’operazione di “doxaggio” (cioè il rilascio in rete di informazioni pubbliche su determinati personaggi) da persone riconducibili alla rete di Anonymous sfruttando siti come Pastebin.com, che permette di inviare informazioni in formato testuale anche in forma anonima per un certo periodo di tempo, una delle piattaforme più utilizzate dal gruppo hacktivista per la pubblicazione di dati e comunicati stampa[17].

Prove a (s)favore. L’unica minaccia di cui l’Fbi ha potuto dar prova va però nel senso opposto a quanto architettato. Non solo il già citato passaggio dell’uccisione dei leader tramite cecchini, ma anche il lancio di una “bomba chimica” [pag. 57] composta di carta stagnola e Drano (un prodotto sgorgante composto da idrossido di sodio, nitrato di sodio, cloruro di sodio e alluminio) nell’accampamento di OWSMaine[18] e l’uso di spray al peperoncino da parte di poliziotti newyorkesi contro i manifestanti.[19]

Bomba chimica del Portland Press Herald

«Il documento è fortemente censurato, ed è chiaro che l’FBI sta trattenendo molto più materiale. Chiediamo la completa divulgazione al pubblico del materiale inerente questa operazione», ha detto Heather Benno, avvocato del PCJF. Anche perché, dopo aver visto tutto questo, il dubbio è più che legittimo: se l’agenzia ha deciso che queste informazioni, tutto sommato, potevano essere rese note, cosa c’è scritto nelle parti censurate?

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http://www.infooggi.it/articolo/crackdown-occupy-come-la-finanza-ha-guidato-il-pugno-di-ferro-contro-occupywallstreet/35741/

NOTE:

[1] Potential Criminal Activity Alert [Unclassified], Situational Information Report, Federal Bureau of Investigation, 15 settembre 2011;
[2] FBI documents reveal secret nationwide occupy monitoring, The Partnership for Civil Justice Fund, 22 dicembre 2012;
[3] How the FBI monitored the Occupy Movement, di Mara Verheyden-Hilliard, Global Research, 31 dicembre 2012;
[4] FBI documents reveal secret nationwide occupy monitoring, The Partnership for Civil Justice Fund, 22 dicembre 2012;
[5] Aryan Nation – The terrorist next door di Mark Silk, The New York Times, 17 novembre 2002;
[6] Inspire, al-Qaeda’s English-language magazine, returns without editor Awlaki di Peter Finn, Washington Post, 2 maggio 2012;
[7] Revolution in America. Will Corporatocracy or Democracy prevail? di Micah M. White, Adbusters, 21 Aprile 2011;
[8] La storia del nome Occupy Wall Street, ilpost.it, 18 ottobre 2011;
[9] Pre-Occupied. The origins and future of Occupy Wall Street di Mattathias Schwartz, The New Yorker, 28 novembre 2011;
[10] Il "Giorno della rabbia" sbarca in Usa: occupiamo Wall Street di Simonetta Cossu, Liberazione, 6 settembre 2011;
[11] "Operation Tripwire" — the FBI, the Private Sector, and the Monitoring of Occupy Wall Street di Beau Hodai, PrWatch.org, 31 dicembre 2012;
[12] Domestic Security. Combating Crime, Protecting Commerce, Fbi Stories, Fbi.gov, 14 marzo 2011;
[13] About DSAC, dsac.gov;
[14] FBI Zeroes In on Potential Terrorists di Greg Krikorian, 13 dicembre 2003;
[15] Occupy Des Moines struggled with infighting, DesMoinesRegister.com, 27 dicembre 2012;
[16] Compensi in crescita per i manager,economiaweb.it, 25 giugno 2012;
[17] Pastebin.com vuole sfrattare Anonymous e gli hacker di Francesco Adessi, PianetaTech, 3 aprile 2012;
[18] Chemical bomb thrown at Occupy Maine camp, cbsnews.com, 24 ottobre 2011;
[19] Occupy Wall Street: inquiries launched as new pepper-spray video emerges di Robert Mackey and Karen McVeigh, The Guardian, 28 Settembre 2011;

Foto logo: adbusters.org

Casa originale di questo articolo

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14/06/2012

Hay alternativas

Filed under: Noam Chomsky,Occupy Together — Gilmar Crestani @ 9:29 am

Imagen: AFP

Por Noam Chomsky *

En 1978, el presidente del sindicato más poderoso de Estados Unidos, Douglas Fraser, de la federación de los trabajadores de la industria del automóvil United Auto Workers (UAW), condenó a los “dirigentes de la comunidad empresarial” por haber “escogido seguir en tal país la vía de la guerra de clases (class war) unilateral, una guerra de clases en contra de la clase trabajadora, de los desempleados, de los pobres, de las minorías, de los jóvenes y de los ancianos, e incluso de los sectores de las clases medias de nuestra sociedad”.

Fraser también los condenó por haber “roto y descartado el frágil pacto no escrito entre el mundo empresarial y el mundo del trabajo, que había existido previamente durante el período de crecimiento y progreso” en el período posterior a la Segunda Guerra Mundial, conocido como la “edad dorada” del capitalismo de Estado.

El reconocimiento de la realidad por parte de Fraser fue acertado aunque tardío. Lo cierto es que los dirigentes empresariales y sus asociados en otros sectores de las elites dominantes estaban constantemente dedicados a una siempre presente guerra de clases, que se convirtió en unilateral, sólo en una dirección, cuando sus víctimas abandonaron tal lucha.

Mientras Fraser se lamentaba, el conflicto de clases se iba recrudeciendo y, desde entonces, ha ido alcanzando unos enormes niveles de crueldad y salvajismo en Estados Unidos que, al ser el país más rico y poderoso del mundo y con mayor poder hegemónico desde la Segunda Guerra Mundial, se ha convertido en una ilustración significativa de una tendencia global.

Durante los últimos treinta años, el crecimiento económico ha continuado –aunque no al nivel de la “edad dorada”–, pero para la gran mayoría de la población la renta disponible ha permanecido estancada mientras que la riqueza se ha ido concentrando, a un nivel abrumador, en una facción del uno por ciento de la población, la mayoría de los ejecutivos de las grandes corporaciones, de empresas financieras y de alto riesgo, y sus asociados.

Este fenómeno se ha ido repitiendo de una manera u otra a nivel mundial. China, por ejemplo, tiene una de las desigualdades más acentuadas del mundo. Se habla mucho, hoy en día, de que por el hecho de que “Estados Unidos esté en declive” hay un cambio en las relaciones de poder a nivel global. Esto es parcialmente cierto, aunque no significa que otros poderes no puedan asumir el rol y la supremacía que ahora tiene Estados Unidos.

El mundo se está convirtiendo así en un lugar más diverso en algunos aspectos, pero más uniforme en otros. Pero en todos ellos existe un cambio real de poder: hay un desplazamiento del poder del pueblo trabajador de las distintas partes del mundo hacia una enorme concentración de poder y riqueza. La literatura económica del mundo empresarial y las consultorías a los inversores súper ricos señalan que el sistema mundial se está dividiendo en dos bloques: la plutocracia, un grupo muy importante, con enormes riquezas, y el resto, en una sociedad global en la cual el crecimiento –que en una gran parte es destructivo y está muy desperdiciado– beneficia a una minoría de personas extraordinariamente ricas, que dirigen el consumo de tales recursos. Y por otra parte existen los “no ricos”, la enorme mayoría, referida en ocasiones como el “precariado” global, la fuerza laboral que vive de manera precaria, en la que se incluyen mil millones de personas que casi no alcanzan a sobrevivir.

Estos desarrollos no se deben a leyes de la naturaleza o a leyes económicas o a otras fuerzas impersonales, sino al resultado de decisiones específicas dentro de estructuras institucionales que los favorecen. Esto continuará, a no ser que estas decisiones y planes se reviertan mediante acción y movilizaciones populares con compromisos dedicados a programas que abarquen desde remedios factibles a corto plazo hasta otras propuestas a más largo plazo que cuestionen la autoridad ilegítima y las instituciones opresivas entre las que reside el poder.

Es importante, por lo tanto, acentuar que hay alternativas. Las movilizaciones del 15M (los “indignados” españoles) son una ilustración inspiradora que muestra qué es lo que puede y debe hacerse para no continuar la marcha que nos está llevando a un abismo, a un mundo que debería horrorizar a todas las personas decentes, que será incluso más opresivo que la realidad existente hoy en día.

* Escritor, lingüista y filósofo estadounidense. De CCS (Centro de Colaboraciones Solidarias).

Página/12 :: Contratapa :: Hay alternativas

15/05/2012

La explosión (editorial) del 15-M

Filed under: 15-M,Crise Financeira Européia,Espanha,Occupy Together — Gilmar Crestani @ 8:08 am

En un año, el movimiento contestatario genera cierta literatura específica pero dispara el ensayo, y cierta recuperación de clásicos, del pensamiento crítico

Carles Geli Barcelona 14 MAY 2012 – 20:40 CET4

 

Exposición en el Ateneo de Madrid sobre los indignados del 15- M con motivo del primer aniversario del movimiento. / GORKA LEJARCEGI

“Estábamos en una dictadura cultural y ahora estamos en plena revolución cultural”, sostiene el periodista Guillem Martínez, autor y coordinador de CT o la Cultura de la Transición (Debosillo), ultimísimo hijo en formato de libro que ha generado el 15-M y que engrosa la veintena larga sobre el tema que en una librería de peso en Barcelona como Laie merecen mesa específica por rabiosa novedad a rebufo del movimiento.

Poco más de un mes necesitó el sector editorial español para responder en mayo del año pasado al fenómeno. Las voces del 15-M (Libros del Lince), el pionero –“y uno de los que ha ido más de boca a boca”, apunta Martínez– Nada será como antes, de Carlos Taibo (Libros de la Catarata) y Les veus de les places (Las voces de las plazas, en Icària), entre otros, dieron un raudo recibimiento al fenómeno que apenas requirió de tres meses más para asentarse en el mundo del cómic, con títulos como Revolution Complex (Norma) y Yes, we camp! Trazos para una (r)evolución (Dibbuks).

Tras algún titulo un poco más tardano como el que combinaba fotografías y twitters de esas jornadas (como RT # 15-M, financiado a través de crowdfunding), “el fenómeno pareció calmarse y ahora me sorprende que no haya ninguno específico que haga un primer balance del primer aniversario”, constata Lluís Morral, de Laie. “No puede haber balance porque no hay movimiento aún, apenas se está formando, como demuestran estos días los debates ya más concretos que se están produciendo sobre daciones, posibles responsabilidades… Hasta ahora las editoriales hemos recogido motivos de indignación y demostraciones de estado de ánimo y ahora apuntamos a posibles alternativas; el movimiento está aún en un work in progress”, apunta Anna Monjo, responsable editorial de Icaria, quizá el sello que más ha apostado por el tema. Arrancaron casi dos años antes, en 2009, ofreciendo ya una colección (A saco) de textos breves y asequibles planteando inquietudes quizá entonces aún latentes pero que a partir del 15-M reorientaron, como demuestran los títulos Quiénes son los mercados y cómo nos gobiernan, Vivir en deudocracia… Así hasta una docena, el último de los cuales aparecerá estos días, ¡Banca pública!, y al que seguirán Internet, tecnopolítica y revoluciones y Transnacionales y poder político.

La mirada a la mesa de novedades da rápidamente un retrato-robot de buena parte de esas publicaciones. Suelen ser textos breves, de apenas un centenar de páginas, y generalmente escritos por varios autores, práctica que se extiende a los cómics. “Son breves porque se busca un precio asequible [los A saco de Icaria se mueven por los seis euros] y porque se quiere un mensaje claro, corto y contundente en tanto buena parte de la gente que los adquiere son jóvenes acostumbrados a leer en pantalla o gente que no lee ensayo y menos de temas económicos o políticos; no se pueden ofrecer textos hiperelaborados y largos, fracasarían”, expone Monjo. Y remite a cómo se mueven las asambleas en las acampadas: “se nota mucha desinformación en las plazas; hay gente que pregunta cosas muy básicas; en eso se nota cómo el 15-M ha incorporado a la discusión política y crítica a gente que estaba excluida por voluntad propia o no, una distancia política que la crisis, la injusticias y las hipotecas han sacudido, y esta gente requiere ahora libros de formación y que se les planteen alternativas”. La firma colectiva suele responder a que son autores que forman parte de grupos de investigación o de colectivos, “gente que está ya muy metida”.

Constata Martínez, como autor y como comprador-usuario, cómo buena parte de la bibliografía alrededor del 15-M está en manos de sellos editoriales ya establecidos y no tanto en manos de firmas más pequeñas en el borde del sistema, dice quizá pensando en sellos como Virus o El Viejo Topo. Así, han sido editoriales como Icaria, pero también Séquitur, Angle Editorial (gracias a su escritor-insignia, Arcadi Oliveres, que acaba de lanzar ¡Ya basta!, en su sello Cuadrilátero de libros) o incluso grandes sellos como Planeta con Stéphane Hessel y sus ¡Indiganos! y ¡Comprometeos! (ambos en Destino), o Santillana con el coral Reacciona (Aguilar, que hace unas semana ha reincidido con autores y temática en Actúa, ahora en Debate), entre otros, quienes han ido dominando los anaqueles. La clave de ello puede estar, según la editora de Icaria, en “la transversalidad ideológica del propio 15-M , que hace que los sellos alternativos más definidos ideológicamente no sepan a ciencia cierta si es su discurso o no; el movimiento no es anarquista o comunista o antisistema a secas, y eso crea desorientación”. También suelta una pequeña pulla a los grandes que, si quisieran, podrían acaparar también en esto el mercado. “Lo que ocurre es que para editar este tipo de libros has de creértelos un poco también y saber dónde están estos autores, tener contactos con ellos y los grandes grupos editoriales no suelen”.

Sin duda sí es fruto directo del 15-M es, en un fenómenos de onda expansiva editorial, la proliferación de libros de debate y de reflexión alternativos. “En el último año ha aumentado la oferta ensayística de esta vía”, constata Morral desde el punto de venta. Son títulos que no abordan tan directamente el movimiento como los problemas de fondo que lo zarandean; pueden visualizarlo títulos como Sus crisis, nuestras soluciones, de la ya veterana Susan George; Así no podemos seguir, de Paul Ginsborg (Lince) o los de Serge Latouche, apóstol de la filosofía del decrecimiento (Salir de la sociedad de consumo, en Octaedro, es ahora su título más fresco).

Junto a ello, como una jugada de carambola a tres bandas, la agitación social ha comportado la recuperación de nombres y títulos históricos, como Rosa Luxemburgo, Friedrich Engels y, claro, Karl Marx , de quien amén de libros como Marx ha vuelto de Daniel Bensaïd (Edhasa) o de Por qué Marx tenía razón , de Terry Eagleton (Península), sólo en los cuatro primeros meses de este año ya se han recuperado más de media docena de sus obras. “Es un fenómeno que viene incluso un poco antes de la eclosión del 15-M”, apunta Morral, tesis que Monjo redondea: “Es un tipo de ensayo que dejó de editarse hace cerca de 30 años y la verdad es que faltan referentes para analizar la situación actual; hay un determinado lector, quizá el más concienciado entre los contestatarios, que se da cuenta de que adolece de formación ideológica y esos textos clásicos, muy bien hechos, ayudan a entender de dónde venimos”.

No hace falta que lo admita Monjo porque el librero ya lo ha constatado: las ventas de este tipo de libros son, sin embargo, muy escasas; un poco mejores son las de análisis global más recientes, que en el caso de la colección a saco, la editora cifra de media en unos 2.000 ejemplares”. Según Martínez, hay una parte de este tipo de lectores que se mueven básicamente por la red, “especialmente vía twitter, retuiteando mucho y enlazando desde ahí a textos de descarga gratuita o, a veces, pirateados”. Las editoriales no han se dado cuenta de ello ya también se asoman a twitter para difundir ese tipo de textos, o a Facebook, “yendo a charlas y foros donde está esta gente y haciendo muchas presentaciones. E incluso llegando a acuerdos con los autores o librerías para vender ‘in situ’, en esos foros”.

Martínez esperaba, sin embargo, si no mayor proliferación de títulos, si algunos más que “que hayan modulado discurso”. De alguna manera él lo ha intentado en CT, o la Cultura de la Transición, donde 20 autores (él mismo, Ignacio Echevarría, Belén Gopegui, amador Fernández-Savater e Isidro López, entre otros) diseccionan la sociedad española actual a partir de una primera incisión de bisturí escalofriante: en aras de la estabilidad y la adhesión al proyecto de la tierna democracia, tras la muerte de Franco se desactivó la cultura para convertirla de campo de batalla a jardín. Desde el análisis económico y político y bancario a lo cultural, pasando por el papel de la mujer o de la SGAE o de la literatura, los artículos analizan el malestar de hoy como consecuencia de esa desmovilización pactada en la Transición. “Estamos por vez primera ante un cambio de paradigma real”, apunta Martínez, cuyas primeras explosiones ubica ya en “las reacciones tras el escándalo por los atentados del 11-M, el mismo 15-M y la polémica generada por la Ley Sinde”.

Soldados de Salamina, de Javier Cercas (“por metáfora de la despoblematización y el consenso forzado, pero hay muchos autores CT”), el PSOE (“símbolo de lo que ha sido las izquierdas”) y los medios de comunicación tradicionales en general son los principales fajadores de los artículos.

En cualquier caso, el filón de los libros hijos del 15-M no parece tener fin a corto plazo, en opinión de los consultados. “Seguirá por una razón sencilla: esto acaba de empezar como se ve estos días del primer aniversario; no sé, está el debate del derecho de desobediencia civil, las propuestas de nueva economía… Mientras haya temas a revisar, y la realidad nos lo demuestra cada día, se necesitarán libros para explicarlo y proponer alternativas”, sostiene Monjo.

La explosión (editorial) del 15-M | Cultura | EL PAÍS

14/03/2012

Edgar Morin e o Movimento dos Indignados

Filed under: Edgar Morin,Occupy Together — Gilmar Crestani @ 7:33 am

 

ENTREVISTA: EDGAR MORIN, FILÓSOFO

"Los indignados denuncian; no pueden enunciar"

El filósofo francés Edgar Morin, uno de los autores de referencia para los movimientos de protesta social, recala en Madrid para hablar sobre la esperanza

José María Ridao Madrid 13 MAR 2012 – 18:20 CET13

 El filósofo Edgar Morin / ULY MARTÍN

“Es la primera vez que mis libros se convierten en best-sellers”, dice Edgar Morin (París, 1921) en el jardín de la Embajada de Francia, donde ha querido aprovechar una tarde primaveral en Madrid. Junto a Stéphane Hessel, Morin se ha convertido en uno de los autores de referencia para los movimientos que han protestado en diversas partes del mundo contra la corrupción y la degradación de los sistemas democráticos.

Pregunta. Se volvía a hablar de la ausencia, incluso de la traición de los intelectuales, y, sin embargo, Hessel y usted…

Respuesta. La palabra indignación que empleó Hessel ha servido de catalizador. En un clima general de resignación y de impotencia como el que existía, ha provocado una reacción, un despertar. El de los indignados es un movimiento interesante. No son revolucionarios, son rebeldes que representan una contestación, una protesta.

P. ¿Cuánto tiempo podrá mantenerse?

R. El sentimiento de indignación entre los jóvenes está en su primera etapa. En algunos países árabes han abatido el principal obstáculo, que eran los tiranos. El problema es que carecen de un pensamiento, de una vía para el momento inmediatamente posterior. Es lo mismo que ha sucedido en España y otros lugares. Los indignados hacen críticas justas, denuncian pero no pueden enunciar.

P. Los jóvenes árabes se levantaron contra una tiranía real; en el caso de los indignados parece más bien metafórica.

R. El contexto es diferente. En el caso de la primavera árabe los tiranos eran individuales, pero no hay que olvidar que detrás de ellos estaba la corrupción. Y es contra la corrupción y contra la tiranía del dinero contra lo que se han levantado los indignados occidentales. Es un rasgo en común que no impide advertir las diferencias.

El capitalismo no es eterno pero tampoco está muerto

P. En algunos países donde han tenido lugar protestas de los indignados han triunfado electoralmente partidos conservadores.

R. Con indignados o sin ellos, la crisis habría acabado con el Gobierno de Zapatero. El movimiento de los jóvenes debe considerarse como un síntoma, y se están acumulando múltiples síntomas de la crisis que atraviesa Europa. En Grecia, una política económica impuesta ha desencadenado una cólera que va más allá de la simple indignación. En Hungría, por contemplar otro ejemplo, está fraguando un neoautoritarismo nacionalista.

P. La crisis, entonces, no es solo económica.

R. La crisis económica se introdujo en una crisis general debida a la globalización, a la occidentalización. Es una crisis general de la humanidad. Ese era el contexto donde se desencadenó, además, una crisis económica. La gravedad de esta última no debería enmascarar la profundidad de la otra.

P. Su último libro, escrito con Stéphane Hessel, El camino de la esperanza, propone entre otras cosas la refundación del capitalismo.

R. El capitalismo no es eterno pero tampoco está muerto. Se ha transformado, consagrando la hegemonía del capitalismo financiero. Se trata de poner fin a esa hegemonía, que es la del dinero, la del beneficio, la de lo cuantitativo. En su último libro, Rocard confiesa haber disfrutado de varios momentos de felicidad en su vida; ninguno de ellos tiene relación con el dinero. Es verdad que la política no puede producir la felicidad ni el amor, pero puede establecer que merece la pena perseguir esos objetivos. El presidente de Ecuador, Correa, lo ha expresado mediante la idea del bien vivir.

P. También ha intentado cerrar el diario El Universo.

R. Tanto como he apreciado su idea del bien vivir o su intento de crear un turismo de conciencia y de responsabilidad, alejado de la banalidad, cuestiono su actitud hacia un periódico que le critica.

P. ¿Qué valor concede a las instituciones democráticas?

Hay formas de ahorrar que no tienen que ver con el despido

R. Es preciso revitalizar la democracia, recuperar la confianza de los ciudadanos en el sistema y en los cargos electos. La sensación es que se marcha en el sentido contrario. En cuanto a las instituciones, y aunque se diga que la fórmula del bienestar está agotada, el Estado tendría aún un papel que desempeñar. Podría apoyar a las empresas que persiguen un interés público, un interés socializado, cultural…

P. Pero esas políticas necesitan recursos.

R. Hay formas de ahorrar que no tienen que ver con el despido de funcionarios o medidas similares, sino que combaten la burocratización generalizada del Estado y las empresas. Es necesaria una política que contemple el conjunto de los sectores e identifique aquellos que pueden ser productores de futuro. Claro que existe el problema de la deuda, pero no podemos quedar prisioneros de él.

P. Sin embargo, una cosa es el diagnóstico y otra la solución.

R. Lo que yo escrito en La vía es un diagnóstico: si continuamos así, vamos hacia la catástrofe. La degradación de la atmósfera, el desarrollo de las armas nucleares, el fanatismo, todo esto nos conduce hacia la catástrofe. Es lo probable. Pero hay ocasiones en las que se ha producido lo improbable. No pretendo ser un mesías que anuncia la salvación, digo sencillamente que lo improbable es posible. Lo digo porque lo he vivido: en 1941, la victoria alemana parecía inevitable.

P. ¿Cómo ve usted la catástrofe?

R. No la veo, no sé decir ni cuándo ni cómo tendrá lugar, ni si serán catástrofes en cadena o un apocalipsis. Pero si un sistema no es capaz de resolver sus problemas fundamentales, o bien se precipita en la barbarie, o bien se transforma para encontrar respuestas nuevas.

P. Esa es la esperanza de la que ha venido a hablar en Madrid.

R. Una esperanza que está ligada a la desesperanza.

"Los indignados denuncian; no pueden enunciar" | Cultura | EL PAÍS

12/10/2011

Democracia made in USA

Será que a OTAN não irá intervir para proteger os civis?

Movimento que alcançou cidades como Boston promete mobilização global no próximo sábado (15) | Foto: JonPack / Flickr

Igor Natusch

Enquanto o movimento Occupy Wall Street aproxima-se de completar um mês de atividades, os protestos contra a desigualdade econômica e social espalham-se pelos Estados Unidos e devem, a partir do próximo fim de semana, tomar conta de vários pontos em todo o planeta. De acordo com o Occupy Together, site que centraliza as manifestações nos EUA, nada menos de 106 cidades norte-americanas já abrigam o movimento, enquanto centenas de outras estariam com atividades programadas para os próximos dias.

Leia mais:
– Polícia prende cerca de cem manifestantes no Occupy Boston
– Não há data para o fim do Occupy Wall Street, diz Naomi Klein
– Obama diz que Occupy Wall Street expressa “frustração do povo”
– Depois de Wall Street, protestos se espalham pelos Estados Unidos

Além disso, grandes centros internacionais como Bruxelas (Bélgica), Copenhague (Dinamarca), Toronto (Canadá), Manchester (Inglaterra) e Dublin (Irlanda) estariam hospedando atividades ligadas ao movimento. Para o próximo sábado (15), está programado um movimento mundial de apoio aos protestos (Occupy World), com atividades em diversos países, incluindo várias cidades brasileiras.

Camille Koué / Aslan Media

"É só o começo": depois de caminhada por Nova York, manifestantes propõem dia de ação contra os grandes bancos dos EUA | Foto: Camille Koué / Aslan Media

Caminhada em NY faz “visita” a casas de grandes empresários

Aparentemente, a ideia dos manifestantes em Nova York, cidade que deu início ao movimento, é espalhar os protestos, descentralizando-os de Wall Street em direção a diferentes partes da cidade. Uma caminhada ocorreu nesta terça-feira (11), passando em frente a residências de grandes empresários como Jamie Dimon, executivo-chefe da JP Morgan, o presidente da News Corporation, Rupert Murdoch, e o bilionário David Koch. Os passos da caminhada foram descritos em tempo real pela conta do Occupy Wall Street no Facebook. “Os 99% estão agora na frente da casa de Rupert Murdoch”, dizia uma das mensagens. “Estamos na 68th (avenida de Nova York) em direção norte para Park Avenue, juntem-se a nós!”, convidava outra. Segundo informações de agências, cerca de mil pessoas participaram do evento.

Para o próximo sábado, está sendo convocada via redes sociais uma manifestação chamada “Day of Action Against Banks” (Dia da Ação Contra os Bancos, em tradução livre). A ideia é fazer com que os participantes dirijam-se a seus respectivos bancos, em uma espécie de ocupação coletiva. “Os bancos não vão mais levar nossas casas. Os bancos não vão mais roubar os estudantes de seu futuro. Os bancos não vão mais destruir o meio ambiente. Os bancos não vão mais financiar a miséria da guerra. Os bancos não vão mais causar desemprego em massa. E os bancos não vão mais lucrar com crise econômica sem enfrentar resistência. Nós ocuparemos todos os lugares”, avisa a mensagem.

Nina Mashurova

"Essa revolução não será privatizada", diz cartas exibido durante protestos em Boston | Foto: Nina Mashurova

Em uma espécie de demonstração de apoio aos protestos em Wall Street, hackers ligados ao grupo Anonymous derrubaram o site do New York Stock Exchange (NYSE), grupo que administra a Bolsa de Valores de Nova York. O ataque, ocorrido na segunda-feira, provocou lentidão e dificuldades de acesso, ainda que representantes da Bolsa garantam que o site não chegou a sair do ar e que o pregão do dia não foi afetado.

O filósofo e crítico esloveno Slavoj Zizek visitou o acampamento do Occupy Wall Street na segunda-feira e discursou para os manifestantes. Com a proibição do uso de megafones e demais aparelhos de som, os presentes começaram a recitar em voz alta cada frase de Zizek, como forma de fazer com que mesmo as pessoas mais distantes conseguissem ouvir a fala. O vídeo com a íntegra da manifestação segue logo abaixo. A tradução, na íntegra, pode ser lida no site Opera Mundi:

Polícia aumenta repressão contra protestos

Na medida em que aumenta a abrangência dos protestos, a repressão também cresce em números e intensidade. Em Boston, 129 manifestantes foram presos – segundo a polícia local, por bloqueio ao tráfego de veículos, invasão e reunião ilegal. Os manifestantes da cidade, antes concentrados na Dewey Square Park, passaram na noite de segunda-feira a ocupar também parte do Rose Fitzgerald Kennedy Greenway, vizinho ao ponto de encontro inicial. A polícia deu um ultimato para que os manifestantes regressassem a Dewey Square em uma hora e meia – os que não atenderam o pedido foram presos. As barracas e demais pertences encontrados no Rose Fitzgerald foram jogadas no lixo pela polícia.

Nina Mashurova

Ainda que protestos tenham caráter pacífico, ações da polícia provocaram a prisão de centenas de manifestantes | Foto: Nina Mashurova

Em Atlanta, manifestantes receberam ordens da polícia para deixar o Woodruff Park, onde se encontram acampados desde a última sexta-feira. Em resposta, uma mensagem no site do Occupy Atlanta deixou claro que os participantes não tinham intenção de abandonar o local. “Convocamos os apoiadores do Occupy Together e defensores da Primeira Emenda para virem ao Woodruff Park e permanecer conosco por quanto tempo puderem”, diz o comunicado. “Encorajamos todos a trazer câmeras para registrar o caráter pacífico da nossa manifestação e qualquer ação que for tomada pela polícia”. Por meio de um porta-voz, o prefeito de Atlanta, Kasim Reed, disse não haver “planos imediatos” para a remoção dos manifestantes do Woodruff Park. Até a tarde de terça-feira (11), nenhuma prisão havia ocorrido em Atlanta, segundo fontes ligadas ao movimento.

Enquanto isso, o prefeito de Nova York, Michael Bloomberg, deu autorização oficial para que os manifestantes permaneçam em Wall St. por mais quatro meses. O prefeito também acentuou que a permanência poderá ser prorrogada indefinidamente, desde que os envolvidos permaneçam dentro da lei. “Se as pessoas querem se manifestar, e na medida em que obedecerem as leis, estão autorizadas a fazê-lo”, disse Bloomberg. As declarações marcam uma queda no tom adotado pelo prefeito com relação ao movimento. Em entrevistas anteriores, Michael Bloomberg havia dito que manifestantes estavam tentando “acabar com os empregos de trabalhadores” da cidade e que uma intervenção policial estava sendo cogitada.

John W. Iwanski

“Nós temos um ponto. Não somos desorganizados, em poucos dias conseguimos colocar fazer uma cidade inteira girar em torno da gente" | Foto: John W. Iwanski

O movimento provoca grandes divergências entre democratas e republicanos nos EUA. Enquanto o bloco democrata tem se caracterizado pela simpatia aos manifestantes, os republicanos não economizam nas tintas para criticar o Occupy Wall Street e suas ramificações. Em diferentes ocasiões, dois possíveis candidatos republicanos para 2012, Newt Gingrich e Herman Cain, referiram-se aos protestos como “luta de classes”.

Ainda que a cobertura ao Occupy Together tenha aumentado de dimensão nos últimos dias, continuam comuns as críticas ao movimento, acusando-o de não ter objetivos claros e carecer de homogeneidade. Michael Lester, que participa da ocupação no Westlake Park de Seattle, é um dos participantes que responde, com suas próprias palavras, a essas críticas. “Apenas porque a mídia não entende nossa mensagem, não quer dizer que não temos uma”, diz ele. “Nós temos um ponto. Não somos violentos, não somos parasitas, não somos desabrigados, não somos hippies. Somos democratas, republicanos, libertários e apolíticos. Não somos desorganizados, em poucos dias conseguimos colocar fazer uma cidade inteira girar em torno da gente. Vocês não podem colocar um rótulo em nós, e não aceitaremos quaisquer termos que tentem usar para nos definir”.

No mapa, as principais cidades norte-americanas que registram protestos:

Visualizar Occupy Together em um mapa maior

Sul 21 » Mais de 100 cidades dos EUA já aderiram ao Occupy Together

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