Ficha Corrida

19/11/2015

Guerra é quando a Europa é atacada; quando ataca é videogame

Filed under: Europa,Guerra do Petróleo,Imperialismo Colonial — Gilmar Crestani @ 10:09 am
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As milhares de mortes provocadas nos países onde os europeus têm interesses comerciais, particularmente de petróleo, não são assumidas como vítimas de guerra. Vemos sempre pela televisão e pelos jornais como se fossem jogos de viodeogame. Não são precedidas de declarações de guerra. Ou quando há a declaração de guerra, como foi a do Iraque, o que precede é uma farsa: a das armas de destruição em massa. O itinerário da violência colonialista recentes passou pela Líbia, Egito, Síria, Iraque, Ucrânia. Coincidentemente todos países de onde os europeus sugam suas energias.

Attentati Parigi: le verità necessarie (e scomode) per sconfiggere l’Isis

di Pressenza – International Press Agency (sito)
mercoledì 18 novembre 2015

di Vittorio Agnoletto

Quanto accaduto a Parigi lascia senza parole, la tragedia è enorme e a pagare con la vita la ferocia dei terroristi sono vittime innocenti, uccise nel mucchio; poteva accadere a ciascuno di noi. Ed il futuro appare denso di paure, per tutti, anche in Europa.

Nessuno oggi ha una soluzione pronta da proporre; non ci sono vie d’uscita semplici. Provo quindi solo a condividere alcune riflessioni e ad esplicitare cosa, a mio parere, non dovremmo fare.

“Siamo in guerra” hanno titolato molti media, mostrando grande stupore; un annuncio che sembra annunciare una realtà a noi profondamente lontana. Ma se riusciamo a prenderci qualche minuto di riflessione, ci rendiamo conto di quanto quei titoli alla fine non comunichino altro che un dato di fatto, qualcosa che ormai da anni è oggettivamente una realtà.

La Francia, ma anche molti altri paesi europei, sono in guerra ormai da anni, da quando hanno partecipato alle guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria, in Mali… senza peraltro aver mai formalmente dichiarato lo stato di guerra. Non sono videogiochi, sono guerre a tutti gli effetti, fatte con soldati, con armi di ogni genere, con bombe e droni che bombardano e uccidono. Come tutti i conflitti moderni il maggior numero di vittime sono tra i civili, tra persone innocenti che erano sedute a banchetti nuziali, tra bambini che giocavano all’aria aperta o tra feriti ricoverati in ospedale, giusto per ricordare solo alcuni degli ultimi “effetti collaterali”. L’Occidente è in guerra, solo che pensava di potere condurre questi conflitti senza che i propri cittadini nemmeno se ne accorgessero. La guerra ci sarebbe stata, ma solo a casa del nemico, nulla avrebbe interrotto la vita quotidiana di noi europei.

Ora sappiamo che non è così. Questa è la novità, non l’essere in guerra. E’ acclarato che le ragioni vere dell’interesse occidentale per l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria ecc. siano il petrolio, il gas, gli oleodotti, i gasdotti, il controllo delle vie di comunicazione… Se l’esportazione della democrazia fosse al primo posto, avremmo vista da tempo i droni attaccare l’Arabia Saudita. E’ anche facilmente verificabile che in nessuno tra i Paesi coinvolti nelle guerre la democrazia sia subentrata alle precedenti dittature. Papa Francesco nel settembre 2013 aveva invitato tutto il mondo a una veglia per convincere i leader a rinunciare alla guerra in Siria, ma non ottenne alcun risultato.

Gli effetti di tali scelte sono sotto gli occhi di tutti: condizioni di vita disastrose per le popolazioni, aumento della povertà, crollo dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, aumento vertiginoso dei morti da un lato, rafforzamento dell’integralismo islamico grazie alle armi destinate dagli alleati a chi avrebbe dovuto combattere i dittatori in nome della democrazia e grazie al sostegno fornito da Arabia Saudita, Emirati e Turchia, tutti fedeli alleati dell’Occidente. Il minimo che si può dire è che gli strateghi Usa, e le leadership politiche e militari europee, abbiano sbagliato i propri conti. Se invece l’obiettivo era il controllo delle risorse energetiche, l’aumento dei profitti dell’industria bellica (grande supporter di politici su ambedue le sponde dell’Atlantico) e l’avanzare sullo scacchiere politico nel confronto con la Cina e la Russia allora il bilancio è certamente diverso. Basta essere chiari sulle ragioni delle guerre.

Cosa possiamo fare a questo punto? Non credo ci siano soluzioni facili e comunque io non ne ho. Mi limito a dire cosa dovremmo evitare di fare.

Evitiamo di partecipare ad altre guerre, diamoci da fare perché non si avveri il desiderio di Renzi dell’Italia a capo di un’alleanza militare in Libia. Rafforzeremmo ulteriormente i gruppi integralisti nelle loro campagne di reclutamento contro gli infedeli, diventeremmo ancor più un bersaglio da colpire, spenderemmo risorse oggi molto più utili alla sanità, al lavoro e alla scuola. Chiediamo invece che le intellingence facciano il loro lavoro e che siano sostituiti coloro che non hanno dimostrato di esserne all’altezza.

Evitiamo di seguire Le Pen, Salvini e compagnia nelle loro crociate contro tutti gli immigrati e gli islamici: dal razzismo non può nascere che ulteriore violenza. Favoriamo l’integrazione ed evitiamo la formazione di ghetti, come le banlieue parigine; l’isolamento e la marginalità sono il terreno preferito dai reclutatori del terrore. La sconfitta dell’Isis è ovviamente una priorità assoluta. Questi assassini devono essere fermati. Per fare questo almeno seguiamo una regola base di tutte le guerre: isolare il nemico, “togliere ai pesci l’acqua dove stanno nuotando”. Ciò significa innanzitutto ripetere all’infinito che Islam e Isis non sono la stessa cosa, in questo modo evitiamo di regalare un miliardo di persone all’Isis. Questo ragionamento di buon senso non si può pretendere da un Salvini che per un voto è disposto a tutto, ma è legittimo richiederlo a tutti i mezzi d’informazione, per evitare un disastro.

Inoltre sarebbe corretto ricordarsi che in questo momento sul campo di battaglia tra i più acerrimi nemici dell’Isis ci sono i pasdaran iraniani, gli hezbollah libanesi e i guerriglieri curdi, tutte realtà islamiche, tutti gruppi che dai governi occidentali spesso sono state considerati terroristi. Ma sono loro che ogni giorno sfidano l’Isis sul campo.

Il mio non è buonismo come qualche ipocrita direbbe, ma verità e realismo necessari per battere gli assassini.

P.S.: Ormai il Giubileo c’è (non se ne sentiva proprio la necessità); sarebbe bene che il Papa invitasse i fedeli a celebrarlo a casa propria, non sempre dobbiamo per forza scegliere ciò che più ci espone ai rischi e non credo che la fede possa essere misurata da un viaggio o meno nella Città eterna.

(Foto di https://www.facebook.com/Tanksnothanks)

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Attentati Parigi: le verità necessarie (e scomode) per sconfiggere l’Isis – AgoraVox Italia

26/10/2015

Os EUA e a Lava Jato

TioSam

EUA: por trás dos golpes, as garras, por Márcio Valley

Enviado por marcio valley dom, 25/10/2015 – 18:36

do blog do Marcio Valley

John Adams foi o primeiro vice-presidente dos Estados Unidos, tendo George Washington como presidente, e seu segundo presidente, governando no período de 1797 a 1801. Iluminista e republicano, está inserido num contexto histórico que representa o início do fim de uma longa tradição, cujo berço é Grécia clássica e seu filho dileto é o senado romano, na qual o pensamento filosófico e a arte da oratória ainda eram fortes na política. Tempos nos quais não havia esperança para um candidato a político alienado da razão, das verdades e das condições históricas de sua própria época, como hoje parece ser apanágio necessário de parcela considerável dos políticos brasileiros.

Adams disse uma obviedade que, proferida pela boca de um pensador que experimentou o poder, ganha densidade: “Existem duas maneiras de conquistar e escravizar uma nação. Uma é pela espada, a outra é pela dívida.”

E disse outra que merece profunda e necessária reflexão pelos brasileiros, que estamos numa grave turbulência democrática: "Democracia nunca dura muito e logo se desperdiça, exaure, e mata a si mesma. Nunca houve até agora uma democracia que não tenha cometido suicídio."

As palavras chave aqui são espada, dívida e escravidão.

A sociedade ocidental experimenta, como forma de organização política, a democracia submetida ao estado de direito, entendida a democracia como o direito do cidadão de participar do poder político, em oposição às ditaduras e tiranias, e o estado de direito como o cabedal jurídico que limita a atuação estatal ao garantir os direitos e liberdades individuais, impedindo o despotismo e o esmagamento do cidadão pelo peso do Estado.

Não se pode discordar da afirmação de Churchill de que a democracia é o pior dos regimes políticos, porém não existe nada melhor. De fato, a democracia dá voz potencial a todos os cidadãos na escolha do próprio destino, sendo que a participação nos rumos da coletividade é um dos principais fatores de elevação da autoestima. Mesmo para quem advogue o socialismo, a democracia deve ser considerada indispensável como meio de alcançar a felicidade comum, caso contrário pode-se repetir a farsa que foi a experiência soviética.

A democracia, como forma de governo, encontrou um sistema econômico que aparentemente com ela forma um par perfeito na direção dos negócios públicos e privados: o capitalismo. Baseado na propriedade privada, nenhuma pessoa que defenda o liberalismo, entendido como a liberdade de autodeterminação da própria vida, pode ser contra o capitalismo sem incorrer numa contradição em termos.

Ainda assim, democracia e capitalismo parecem estar fracassando no objetivo de estender à humanidade a qualidade de vida que deveria ser um efeito necessário do desenvolvimento humano. Por quê?

A resposta parece ser: democracia e capitalismo degeneraram por excesso de liberdade deste último.

Praticamente todas as ações humanas estão sujeitas a alguma restrição de liberdade individual, pois tal restrição é absolutamente necessária à manutenção da saúde do tecido social. Seria impossível viver numa sociedade que não penalizasse o homicídio, a apropriação indevida do patrimônio alheio e a violação da liberdade sexual, apenas para ficar nesses exemplos.

A democracia e o capitalismo, como produtos da ação humana, não podem ficar de fora dessa restrição nas respectivas atuações. E, na verdade, estão de fato sujeitos a diversas restrições.

O problema é que o capitalismo consegue escapar dessas amarras e, livre, corrompe a democracia.

Enquanto o capitalismo manteve-se essencialmente territorial, ainda era possível exercer sobre ele algum pouco controle, ante a necessidade do capital, e muitas vezes do próprio capitalista, de permanecer no local da produção. Obrigado a estar no local, devia alguma submissão às leis locais, ainda que mínima. Tal possibilidade de controle, ainda que bastante rarefeita, não mais existe. Atualmente, desvinculado de qualquer território específico, nenhum país é capaz de lhe restringir a liberdade.
A primeira vítima dessa liberdade é justamente a democracia.

Historicamente, os ricos sempre foram senhores do Estado, num primeiro momento como monarcas e, posteriormente, como eleitores privilegiados. Salvo poucas exceções, ou os ricos estão no poder diretamente ou o poder é exercido pelos escolhidos da riqueza. A estreiteza da relação riqueza-governo é de tal ordem que se chega a justificar a existência do Estado como instituição garantidora da propriedade, nada mais.

Democracia real, portanto, sempre foi e continua a ser uma utopia longínqua.

Mesmo quando se fala em democracia clássica grega, isso guarda pouca relação com o que se entende hoje por democracia popular. O comparecimento à praça da Ágora era exclusividade de cidadãos homens nascidos de pais atenienses, uma casta de privilegiados. Mulheres e estrangeiros residentes eram excluídos da democracia. Além disso, havia servidão e escravidão em Atenas, obviamente sem direito algum, o que por si contraria o sentimento que temos hoje em relação aos fins e objetivos da democracia.

Contudo, num único e breve momento da história, que não chegou a cem anos, um espirro histórico em quase cinco mil anos de civilização, uma parte da própria elite, talvez entediada pela mesmice, inaugurou uma nova forma de pensar que hoje designamos por Iluminismo.

Os iluministas eram membros altamente intelectualizados da elite, pensadores que puseram a razão acima dos temores mitológicos que até então dominavam a humanidade. Durante esse período, Nietzche chegou a decretar a morte de Deus. O filósofo só não previu que, tratando-se de um ser todo-poderoso, no final do século seguinte, Ele ressuscitaria, e com bastante disposição para angariar fundos, nas igrejas pentecostais.

Essa facção diletante e aborrecida da elite europeia começou a pensar em coisas como o abandono das barbaridades da Idade Média, do obscurantismo religioso e das arbitrariedades do Estado. Iniciou um processo de valorização do ser humano, visando à construção de uma nova sociedade, fundada axiologicamente no altruísmo social e na dignidade da pessoa humana. Havia um quê de utilitarismo no objetivo pretendido por essa elite de intelecto entendiado que ousou desafiar as repugnâncias de sua época. Não era, propriamente, o bem do indivíduo que se buscava, mas da sociedade. Afinal, uma sociedade com uma carga menor de carências individuais é certamente capaz de gerar um ambiente menos perigoso para circular, possivelmente com um grau de felicidade geral maior e mais cheirosa e bonita de se ver.

Embora o ciclo do pensamento iluminista tenha durado pouco, encerrando-se no despertar do século XIX, ecos dessa forma racionalista de pensar, pressupondo a valorização do ser humano, persiste até os dias de hoje e foi consagrada em instrumentos históricos notáveis, como a constituição americana e a carta dos direitos humanos. Nossa constituição é recheada de valores iluministas.

Esse espirro histórico durante o qual uma fração da parcela rica da sociedade foi confrontada com sua obrigação moral de cuidar dos desvalidos veio a causar, tempos depois, reforçada pela influência de outros eventos históricos importantes, como a ascensão das ideias de Marx e as grandes guerras, um pequeno, mas significativo relaxamento na sofreguidão pelo lucro.
Por um breve momento, repentinamente parecia que a sociedade humana tinha encontrado o caminho para o florescimento de grande parte dos indivíduos, um arranjo saudável entre a busca pelo lucro e a necessidade de excluir a experiência humana da miséria abjeta.

Durante esse piscar de olhos, nós parecíamos realmente ser a espécie mais inteligente do planeta.

A legislação trabalhista protetiva ganhou impulso, um patamar salarial mínimo é garantido, estipula-se um máximo de horas para o trabalho, o Estado passa a conceder assistência social aos desfavorecidos, o acesso a uma educação fundamental é garantida, assim como o acesso à saúde básica, além de outras iniciativas vocacionadas à eliminação da condição de vida degradante.

Um pouco depois disso, em meados do século XX, ao bem-estar da população veio agregar-se uma outra concessão do capital: a redução da miséria pelo incremento na renda. Foi a época dos baby boomers americanos e dos Trinta Gloriosos da França. Nesse momento histórico também se inclui os cinquenta anos em cinco de Juscelino, no Brasil.

Entretanto, quando tudo indicava que a democracia e o capitalismo iriam cumprir o desígnio para o qual estavam predestinados, de conduzir a humanidade ao paraíso na Terra, salvar o planeta da miséria, eis que se inicia um desagradável retrocesso e se reacende a fogueira quase apagada da degradação da condição humana. Perdem-se totalmente ou são mitigadas as conquistas históricas do desenvolvimento civilizatório iniciado a partir do final do século XIX.

A América Latina viu-se arrebatada por ditaduras, no Oriente Médio inicia-se um processo de desestabilização política que ainda continua, a Europa ser torna um fantasma do que chegou a ser do que poderia ainda ser.

Quem é o culpado? Quem estragou a festa da civilização?

O culpado mais provável é a ressurgência da ótica do poder absoluto que dominava o cenário na época da barbárie humana, dos faraós, czares e imperadores. Retorna a vontade do rico de usar o seu poder de forma absoluta, inquestionável, acima do bem e do mal. Poder absoluto que, hoje, se traduz na perspectiva do lucro a qualquer preço, pensamento bárbaro similar à conquista total e da terra arrasada, que se colocou no passado e se coloca no presente acima dos interesses da humanidade. Esse espírito deletério é representado por algo que é celebrado e olhado de forma positiva até por quem é sua vítima: a globalização da economia.

A globalização não é um movimento recente, as grandes navegações do século XVI já representavam esse intuito, e tampouco é culpada pelo problema, trata-se apenas de ferramenta extremamente útil para alcançar o real objetivo: lucratividade desmedida, poder sem limites.

A globalização é atualmente a maior responsável pela renovação da escravidão em roupagens modernas. Hoje o senhor do escravo não precisa mais construir senzalas e nem necessita morar na casa grande. Ele obtém o trabalho gratuito pagando, por exemplo, cinquenta centavos de dólar por uma camisa numa fábrica em Bangladesh, que emprega costureiras por 20 dólares mensais. A corporação fashion americana ou europeia pode afirmar, assim, que não é ela a responsável por pagar esse salário miserável a um trabalhador seu. Certamente.

Numa sociedade saudável, a globalização seria ótima, desde que entendida como a liberdade plena de deslocamento do ser humano no planeta, pessoas e seus patrimônios. No despertar da humanidade, a globalização era um fato, inexistiam fronteiras e impedimentos ao tráfego humano.

Nossa sociedade, porém, está muito longe de ser saudável. Alguém já afirmou que somente uma pessoa muito doente pode se dizer perfeitamente adaptada a essa sociedade degenerada. Nesse sentido, a inquietação, o inconformismo, é que seria sinônimo de inteligência e saúde mental.

A globalização, vista sob seu aspecto meramente econômico, admite apenas a liberdade de tráfego para o capital. Pessoas continuam locais e impedidas de atravessar fronteiras, vide o exemplo trágico dos refugiados, alvo da “piedade” europeia muitas vezes traduzida no afundamento de seus barcos.

Atualmente, o poder político real não está mais nas mãos dos presidentes das nações. Voltamos à era dos faraós, dos reis, dos imperadores. A única diferença é que, hoje, eles sentam em tronos incógnitos. Não se sabe mais quem são os reis e onde estão os seus castelos, porque eles perderam o ancestral orgulho de estar no comando. A nova onda do imperador é não ser admirado, somente temido. A invocação da genealogia e da heráldica tornaram-se anacrônicas e até perigosas para os soberanos num mundo apertado por sete bilhões de pessoas, em grande parte faminta, no qual matar milhares, em caso de convulsão, não é mais assim tão glamouroso. Hoje, nossos novos monarcas se apetecem somente pelo poder e pela riqueza. Alguns poucos, menos cerebrais, à isso acrescentam a vontade da fama.

Os novos reis não possuem um local definido, uma área geográfica, para a ação imperial. No antigo modelo, cada nação representava um pedaço do planeta dominado por seu próprio rei. O poder do rei estava adstrito ao território da nação. Isso é passado. Na atual divisão do poder, território nada mais significa. O comando não mais se divide entre nações e seus territórios, mas entre corporações e seus ramos de negócios. A economia está fatiada e cada uma das fatias representa um reino específico comandado por poucos monarcas absolutos. Há quem sustente que temos atualmente 147 reis, cada um deles comandando as corporações que encabeçam e que, em desdobramento, dominam todas as demais (http://www.inovacaotecnologica.com.br/noticias/noticia.php?artigo=rede-c…).

O poder dos novos reis emana, tanto das riquezas do passado, decorrentes da acumulação primitiva, como das riquezas modernas, obtidas por empreendedorismo e oportunismo. Munidos da força dessas riquezas, manipulam a política como meio de controlar os sistemas monetário e financeiro, ou seja, a toda a economia. Não se trata de uma conspiração, mas de orientação identitária a partir de uma ideia contida no senso comum, de que a riqueza deve ser mantida nas mãos de quem as detém e ampliada ao máximo, independentemente das consequências. Embora não seja uma conspiração, em toda a plenitude da palavra, isso não significa que não se reúnam ocasionalmente para traçar diretrizes comuns. Fazem isso com frequência regular no Fórum Econômico de Davos, na reunião de Bilderberg e em outros grupos menores, mas não menos importantes, como a sociedade Skull & Bones, além de outros, alguns dos quais talvez nem chegue ao conhecimento do público.

Como todo rei, eles precisam de um exército. Esse exército, atualmente, se chama Estados Unidos da América.

Os Estados Unidos não são "o" império, como muitos pensam. São apenas o soldado do imperador, a interface do poder, a máscara com a qual é encenado o teatro farsesco da democracia e da liberdade. São também a espada de que nos alertava John Adams, com a qual é imposta a vontade absoluta dos reis a todos os países.

Os Estados Unidos, como braço armado dos imperadores, submete a economia mundial à vontade do poder de quatro modos distintos: (a) corrompendo os governos nacionais, (b) mediante a concessão de empréstimos condicionados a exigências futuras virtualmente impossíveis de cumprir, concedidos por instituições como Banco Mundial e FMI, (c) assassinando políticos de países estrangeiros que incomodem ou (d) pelo velho, tradicional e eficaz método de invasão armada.

Independentemente do método, o objetivo é o mesmo: fragilizar a nação-alvo e obrigá-la ao cumprimento da agenda corporativa. Um interesse presente é a venda de ativos do colonizado. A privataria tucana praticada durante o governo de Fernando Henrique Cardoso não possui outra explicação. Um intuito marcadamente presente é o controle de recursos naturais, principalmente o petróleo. Outras vezes, o desejo é instalar bases militares americanas no país. Enfim, a submissão das demais nações é interessante sempre e pelos mais variados motivos, mas principalmente por interesse em recursos minerais ou de proteção aos produtos das corporações internacionais.

Embora na superfície se tratem de solicitações americanas, o interesse subjacente, e principal, é das corporações. Apenas como exemplo, a guerra do Iraque favoreceu empresas de construção e petrolíferas, tendo o governo americano arcado com a totalidade do prejuízo. Na privatização brasileira, foram corporações que se beneficiaram do sucateamento de nossas estatais.

Constitui fato histórico reconhecido que o governo dos Estados Unidos atuou para desestabilizar governos de países soberanos, muitos deles pacíficos e amigos dos americanos, inclusive através de assassinatos políticos.

Foi assim em 1949, quando o governo americano auxiliou o golpe de estado que conduziu Husni al-Za’im ao comando da Síria. Alçado ao poder, Za’im implementou ações em benefício de corporações do petróleo.

Em 1953, os americanos, com apoio dos ingleses, derrubaram Mohammed Mossadegh, que fora democraticamente eleito presidente do Irã. Mossadegh ousou nacionalizar a indústria de petróleo iraniana, até então controlada por uma corporação britânica, porque entendia que essa riqueza mineral deveria beneficiar primeiramente o povo iraniano. Em seu lugar, ascendeu Mohammad Reza Pahlavi, um tirano autoritário, porém simpático ao poderio americano. Reza Pahlavi permaneceu no poder até 1979, quando uma revolução iraniana, liderada pelo Aiatolá Khomeini, o depôs.

Como agiram os americanos nesse episódio? Enviaram um emissário, munido de milhões de dólares, para corromper os adversários políticos de Mossadegh. Mossadegh, um democrata eleito, foi retratado pela imprensa como um tirano, enquanto Reza Pahlavi, um monarca absolutista despótico, era fantasiado de liberal.

Conduzido pela desonestidade da imprensa e por políticos corruptos totalmente desvinculados dos interesses do Irã, o povo aderiu ao golpe a auxiliou na queda de Mossadegh. Tiro no próprio pé, movido pela ignorância e pela fraude.

O modelo utilizado no Irã, contra Mossadegh, torna-se padrão para a derrubada discreta de governos incômodos: envio de poucos emissários americanos, preferencialmente um homem só, com acesso ilimitado a dinheiro, para corromper a imprensa e políticos locais.

O modus operandi é relatado por John Perkins, no livro Confissões de um Assassino Econômico, ele próprio tendo sido um desses agentes infiltrados.

Em 1954, na Guatemala, o governo de Arbenz Guzmán, eleito democraticamente presidente em 1951, desejava realizar uma ampla reforma agrária no país, em benefício de seu povo. Isso, porém contrariava amplamente os interesses de uma corporação americana do ramo de frutas. O governo dos EUA enviou emissários para corromper os políticos da oposição. Novamente a imprensa mundial agiu, passando a imagem de que Arbenz era um agente soviético. Arbenz foi deposto, sendo substituído por uma ditadura militar que atendia aos interesses da corporação prejudicada. Esse é considerado o primeiro dos vários golpes militares patrocinados pelos americanos na América Latina, Brasil inclusive.

Em 1963, no Iraque, o general Abd al-Karim Qasim, que havia liderado um golpe contra monarquia e proclamado a república, foi deposto e preso com apoio dos americanos. Qasim era nacionalista, o que sempre desagrada as corporações. De 1963 a 1968 há uma sucessão de golpes e assassinatos no poder iraquiano, sempre com suspeitas de participação dos americanos, até se estabilizar a presidência nas mãos de Ahmed Hassan al-Bakr do Partido Baath, auxiliado por um jovem político, que se tornará seu vice-presidente em 1979 e, finalmente, dez anos depois, passará a comandar o país, Saddam Hussein.
Saddam se tornaria marionete dos EUA em suas tentativas de derrubar o governo do Irã, iniciadas em 1980, novamente por interesses no petróleo.

Em 31 de março de 1964, João Goulart, democraticamente eleito vice-presidente do país e que assumiu de forma constitucional a presidência após a renúncia de Jânio Quadros, também sob a pecha de agente soviético e que também pretendia realizar uma reforma agrária no país, foi deposto por um golpe militar apoiado financeiramente pelo governo dos Estados Unidos. Como sempre, em seu lugar assumiu uma ditadura militar, que vigorou até 1984, vinte anos após.

Em 1981, Jaime Roldós, eleito democraticamente presidente do Equador em 1979, morreu num acidente de avião. Existem fortes suspeitas de que o acidente tenha sido obra do governo americano. Roldós, assim como Mossadegh no Irã, desejava, e estava adotando ações para esse fim, que o petróleo equatoriano beneficiasse o povo do Equador, o que desagradou as corporações do petróleo. Afirma-se que, não sendo possível desinstalar Roldós pela corrupção, restou a opção de simular um acidente de avião.

Hugo Chavez, eleito democraticamente para presidente da Venezuela em 1998, reelegendo-se em 2000 e novamente em 2006, foi duramente combatido pelo governo americano, com apoio integral da imprensa venezuelana. O discurso de Chavez era anti-neo-liberalismo e contrário à geopolítica americana. Em sua primeira eleição, Chavez encerrou um ciclo de 43 anos no poder de um conluio de políticos corruptos que englobava os três maiores partidos venezuelanos. Chavez utilizou o imenso poderia da Venezuela no petróleo como uma arma contra os americanos. Novamente um político nacionalista pretendendo utilizar o petróleo para ajudar o próprio povo. O percentual de venezuelanos classificados como pobres despencou de quase metade da população, 49,4% no ano de 1999, para menos de um terço, 27,8% no ano de 2010. A história revela que esse comportamento não agrada às corporações. Por isso, em 2002, com a imprensa totalmente contrária a Chavez, um golpe de estado o depôs, com fortes indícios de participação ativa dos americanos, que imediatamente reconheceram a legitimidade do governo golpista. Entretanto, ante a reação mundial negativa, o golpe foi um fracasso e, três dias depois, Chavez voltou ao poder.

Os exemplos de intervenção americana direta e indireta poderia continuar por longo tempo, como no golpe do Chile em 1973, na Argentina em 1976, na morte de Omar Torrijos do Panamá em 1981, na tragédia do Afeganistão, na invasão do Iraque em 2003, na Nicarágua e em El Salvador na década de 1980, Camboja, Vietnã e etc e etc…

Brasil. 2002. Um partido criado pelos trabalhadores e com origem nitidamente socialista elege o seu candidato para a presidência da república. O político de origem sindicalista e sem formação acadêmica, Luis Inácio Lula da Silva, após três tentativas infrutíferas, finalmente sobe a rampa do Palácio do Planalto, não sem antes se comprometer formalmente a não instalar um governo comunista no país, num documento denominado Carta aos Brasileiros, nítida concessão às corporações.

Lula surpreende os conservadores, pois sob seu governo a economia avança admiravelmente. De fato, no período de 2003 a 2010, o PIB brasileiro apresenta um aumento anual médio de 4% ao ano, enquanto o representante da elite neoliberal, o acadêmico laureado Fernando Henrique Cardoso, nos oito anos anteriores, obteve somente 2,3% ao ano. No último ano do governo de Fernando Henrique Cardoso, em 2002, a taxa de desemprego era de 10,5% da população economicamente ativa. Lula a reduz para 5,3%. A arrecadação tributária bate recordes em cima de recordes, não por aumento da tributação, mas como reflexo de um incrível incremento no mercado interno. Lula liquida a dívida brasileira com o FMI e aumenta as reservas de US$ 37,6 bilhões para US$ 288,5 bilhões . A taxa de juros Selic cai de 25% ao ano para 8,75% ao ano. O Brasil atravessa sem grandes danos a maior crise econômica desde 1929, que foi a crise de 2008. O salário mínimo, que teve redução real (descontada a inflação) no governo FHC de cerca de 5%, consegue aumento real de cerca de 54% nos oitos anos do governo petista.

Enfim, Lula surpreendeu positivamente durante os oito anos de seu mandato. Contudo, somente obteve paz no primeiro mandato, de 2003 a 2006. A partir do final do primeiro mandato, todavia, passou a ser alvo de crítica feroz da grande imprensa e dos políticos de oposição, principalmente do próprio PSDB.

O que mudou?

Muitas coisas podem ter provocado essa mudança de atitude. Uma delas, talvez a mais relevante, foi o anúncio da descoberta de imensas jazidas de petróleo na camada do pré-sal, ocorrida justamente em 2006. Segue-se à descoberta o anúncio do governo petista de que essas jazidas de petróleo seriam resguardadas para o interesse nacional, inclusive com a possibilidade de criação de uma estatal específica para elas, a Petrosal, o que desagrada às grandes corporações de petróleo do mundo.

Petróleo, nacionalismo, interesses corporativos, ação desestabilizadora. A história se repete.

Um governo cujo sucesso, até então, e embora com um certo ar blasé, era reconhecido pela imprensa, numa reviravolta passa a ser alvo de uma campanha difamatória impiedosa dessa mesma imprensa. Ilícitos que, quando comprovados em governos passados, sequer mereciam manchetes, passaram a ser estampados na capa de jornais e revistas por meras suspeitas.

Adotou-se a prática da escandalização do banal, da manipulação dos fatos e da culpabilidade por dedução lógica.

O escândalo do mensalão transforma uma prática corriqueira em todos os partidos, incorreta, porém usual, de utilização das sobras do caixa 2 de campanhas para a conquista de apoio político, é manejado para parecer compra de votos. Se foi comprovada a compra de votos para votar a emenda da reeleição da Fernando Henrique Cardoso, obviamente interessado nessa emenda, e nada respingou na reputação de FHC, no mensalão afirma-se a compra de votos para aprovação de leis de interesse público, como leis da previdência e outras, sem que se pare para pensar porque um partido iria adotar tal prática para aprovação de projetos de interesse nacional. E ainda que se comprovasse o pagamento, e isso não foi provado, o erro estaria no partido que compra ou no político que precisa ser comprado para aprovar tais leis?

Sem conseguir evitar a reeleição de Dilma pelo PT, mesmo com o mensalão, a escandalização avança, provocando dissensões no próprio tecido social. Amigos deixam de se falar, parentes se dividem, pessoas brigam nas ruas por conta de opiniões contrárias, cadeirantes são agredidos por se manifestarem a favor do PT, velórios são vilipendiados pelo ódio político, pessoas públicas são agredidas em restaurantes em função de exercerem cargo no governo, sair à rua com uma estrelinha do PT aos poucos vai se transformando numa aventura mortal.

Nada impede a imprensa e um setor menos intelectualizado do PSDB de prosseguir nessa sanha acusatória. O governo se vê envolvido numa trama que envolve a grande mídia, um partido (PSDB) que representa os interesses neoliberais desejado pelas corporações, parcela do Ministério Público Federal e do judiciário federal simpáticos ao PSDB, com alguns de seus componentes inclusive tendo sido nomeados pelo próprio Fernando Henrique Cardoso.

A corrupção sistêmica, que Fernando Henrique Cardoso, recentemente, reconheceu existir desde o seu governo, e que soube e que nada fez pois sabia que isso seria mexer num vespeiro incontrolável, é atribuída ao único partido político que em toda a história brasileira agiu de forma republicana e deixou as instituições funcionarem no combate à corrupção.

Como se diz, o PT torna-se vítima de seu próprio republicanismo.

O povo, conduzido como massa de manobra, não percebe as discrepâncias no discurso oposicionista da moralidade seletiva e se agita contra o partido que forneceu as melhores condições jamais experimentadas pelos trabalhadores e pela parcela menos desfavorecida do país.

Contudo, por mais insana que se apresente a conduta da oposição tucana e da imprensa, não parece provável que assumiriam a possibilidade de causar uma ruptura social no país se não houvessem interesses ocultos muito mais sólidos.

A imprensa parece estar cavando a própria sepultura, ao enterrar sua credibilidade em toneladas de lama desveladas rapidamente pela internet. Um ato de suicídio dessa magnitude não pode representar um mero interesse em se livrar de um partido incômodo. Deve existir algo mais.

Quais são os verdadeiros interesses ocultos por trás desse movimento de desestabilização do governo brasileiro?

A equação possui governo de tendência socialista, petróleo, nacionalismo, escandalização pela imprensa e um partido político que atua de forma contrária aos interesses do próprio país.

Todas as vezes em que esses elementos estiveram presentes na mesma equação, os Estados Unidos da América atuaram em desfavor do governo nacional rebelde aos interesses das corporações.

Não há motivo algum para supor que agora fariam diferente.

Na eleição americana do ano 2000, Al Gore foi nitidamente alvo de uma fraude eleitoral que conduziu Bush filho ao poder. Poderia ter iniciado uma disputa jurídica acirrada para obtenção de recontagem. Republicanamente, porém, abdicou dessa disputa em nome da paz política dos Estados Unidos.

No Brasil, Aécio Neves, coloca a própria ambição política acima de um resultado político justo, honesto e reconhecido pelo seu próprio partido após realizar dispendioso e inútil esmiuçamento nas urnas eleitorais. Isso, todavia, não impede Aécio de assumir essa insanidade vexatória num comportamento que o fez ser apelidado corretamente por Jânio de Freitas de “taradinho do impeachment”.

Aécio Neves, cuja riqueza pessoal em grande parte é devida à ação política oligárquica de sua família e à sua própria atuação política, pois está envolvido na política desde antes de se formar na faculdade, se vende como um paladino da moralidade e da ética para maquiar o que é somente mera ambição política, egolatria e mania de grandeza. Se acha no direito de desestabilizar a nação em nome desses vícios de caráter, sendo ombreado nesse propósito por pessoa vaidosa que pensa incorporar a figura de estadista e de sábio político, Fernando Henrique Cardoso, mas que não revela a grandeza de impedir a luta fratricida que está se iniciando no Brasil.

Todavia, não se vê uma defesa contundente da democracia pelo “parceiro amigo” do Brasil, os EUA, que seriam capazes de adotar ações através das próprias corporações donas dos meios de comunicação brasileiros.

O silêncio dos americanos em relação a assuntos internos de outros países que com potencial de atingi-los, mesmo superficialmente, é revelador, pois sempre foi indicativo, não de neutralidade, mas de incitação, apoio material ou, no mínimo, posição favorável aos revoltosos.

O Brasil sempre foi um empecilho às corporações por sua inclinação a um alinhamento com os países sul-americanos e com outras nações menos privilegiadas.

Isso, por si só, já constitui uma ofensa ao imperialismo corporativo.

A gota d’água foi a política protecionista do pré-sal.

É muito possível, pelo que se extrai dos relatos históricos, que a tentativa de desestabilização do governo do PT, acentuado no governo da Dilma, possua garras de águia habilmente escondidas.

Garras que manipulam marionetes brasileiras.

no blog: http://marciovalley.blogspot.com.br/2015/10/estados-unidos-da-america-por-tras-dos.html

EUA: por trás dos golpes, as garras, por Márcio Valley | GGN

04/07/2015

Alemanha quer transformar Grécia num grande prostíbulo

MACONHA TRIP FHCA gente já viu este filme. O diretor da época, FHC, agia no limite da responsabilidade, menos para comprar a reeleição e assumir o filho da funcionária da Rede Globo, Miriam Dutra. A Alemanha usa métodos muito parecidos com relação à Grécia pré-Syriza. Quem não lembra da entrega da base de Alcântara ou a entrega do SIVAM à Raytheon?! O PROER e tantas outras patifarias, incluindo a venda da Vale do Rio Doce por um valor inferior à concessão de três aeroportos pela Dilma. Com a diferença que a Vale não volta mais mas os aeroportos voltam depois de 20 anos…

A seriedade do então presidente pode ser medida pela imagem que ilustra esta matéria.

La pulseada por las joyas griegas

Luego del primer rescate en 2010, el país helénico fue obligado a diseñar un plan de venta de bienes públicos que cumplió solo parcialmente y que Syriza frenó de hecho cuando llegó al poder. Qué vendieron y qué podrían vender si se fortalecen aún más los acreedores.

Por Fernando Krakowiak

Una de las condiciones que se le impuso a Grecia, antes de aprobar el primer rescate financiero en mayo de 2010, fue que diseñara un plan de privatizaciones que fue negociando con la Comisión Europea, el Banco Central Europeo y el Fondo Monetario Internacional. Para lograr ese objetivo, en junio de 2011 el gobierno del entonces primer ministro Giorgos Papandreu creó el Fondo de Desarrollo de los Activos de la República Helénica (Hradf, según sus siglas en inglés), una sociedad anónima a la que se le transfirieron todas las firmas que se fueron poniendo a la venta, listado que incluyó proveedoras de agua, telefonía, gas, electricidad, los trenes, los aeropuertos, la lotería, el correo, los principales puertos y miles de propiedades y tierras públicas, incluso islas paradisíacas. El objetivo era recaudar 50.000 millones de euros en cuatro años, pero las ventas se fueron demorando y lo conseguido hasta ahora está en torno del 10 por ciento de lo previsto. La llegada al gobierno de la izquierda radical de Alexis Tsipras en enero de este año sumó mayor incertidumbre a ese proceso, porque el líder de Syriza se había manifestado en contra de la liquidación del patrimonio público y, pese a las crecientes presiones, en los últimos cinco meses no avanzó con ninguna privatización. Incluso reabrió la televisora pública ERT que el ex primer ministro Antonis Samaras había cerrado. El referéndum del próximo domingo será clave para el futuro del plan privatizador.

– Telefonía. En marzo de 2008, Deutsche Telekom compró el 20 por ciento de Hellenic Telecommunications Organization (OTE), la telefónica estatal. Fue una inversión estratégica ya que esa firma también tiene intereses en Albania, Serbia, Rumania y Bulgaria. En noviembre de ese año, Deutsche elevó su participación al 25 por ciento, igualando la que conservaba el gobierno griego, y en junio de 2009 el Estado le vendió otro 5 por ciento por 674 millones de euros. En junio de 2011, un año después de la aprobación del primer rescate, los griegos se desprendieron de otro 10 por ciento por 410 millones de euros que utilizaron para devolver parte de las “ayudas” de la Eurozona. De ese modo, la participación de la firma alemana en OTE trepó al 40 por ciento y el Estado se quedó sólo con un 10 por ciento. A su vez, en febrero de 2013 OTE anunció la venta de Hellas Sat, la empresa que gestiona el satélite Hellas Sat 2, a la empresa árabe Arab Sat por 208 millones de dólares.

– Aeropuertos. La firma alemana Fraport AG Frankfurt Airport, junto a la empresa griega Copelouzos, ganó en noviembre de 2014 la licitación para operar durante cuarenta años 14 aeropuertos regionales: Aktio, Chania (isla de Creta), Kavala, Kefalonia, Kerkyra (isla de Corfú), Kos, Mitilini, Mykonos, Rodas, Samos, Santorini, Skiathos, Tesalónica –la segunda mayor ciudad griega– y Zakynthos. El monto de la operación fue de 234 millones de euros, aunque el desembolso recién está previsto para septiembre de este año. Además, en noviembre Hradf vendió 2500 hectáreas del ex aeropuerto internacional de Hellinikon en Atenas a Lamda Development por 915 millones de euros, firma que llevará adelante un emprendimiento inmobiliario en el lugar. El ministro de Energía de Grecia, Panayiotis Lafazanis, del ala dura de Syriza, aseguró en enero que se iban a revisar estas concesiones, pero en la negociación de febrero con las autoridades europeas Grecia dijo que no habrá cambios.

– Agua. El programa de privatización incluyó la venta de las empresas de provisión de agua de Atenas (Eydap) y Tesalónica (Eyath), las dos ciudades principales del país. Hradf designó a HSBC y EFC Equities como asesores financieros para privatizar la firma de Tesalónica y a Credit Agricole CIB y Emporiki Bank para hacer lo mismo con la empresa de Atenas. Sin embargo, la resistencia ciudadana logró frenar la operación, al menos por ahora. El 18 de mayo del año pasado se realizó un referéndum en Tesalónica. El gobierno de Antonis Samaras había prohibido la consulta y amenazó con meter presos a quienes votaran, pero las autoridades locales siguieron adelante y el 98 por ciento (unas 213 mil personas) rechazó la privatización. A su vez, a fines de ese mes un tribunal griego frenó la venta de Eydap en Atenas con el argumento de que constituye un riesgo para la salud pública de la población.

– Trenes. Hradf informó en octubre del año pasado que se le brindó información detallada a tres grupos para la preparación de ofertas destinadas a la adquisición de Trainose, la firma estatal que gestiona los trenes griegos: la rusa RZD, la francesa SNCF y el operador rumano Grup Ferroviar Roman. Además, se detalló que las ofertas de la alemana Siemens y de los consorcios RZD/Gek Terna y Alstom/Damco Energía habían cumplido con los requisitos para la compra de la Compañía Helena de Mantenimiento de Material Rodante. El ministro de Energía Lafazanis dijo en enero que posiblemente no se avanzaran con esas privatizaciones y el tema ahora está en la mesa de negociación con la troika que integran la Comisión Europea, el Banco Central Europeo y el FMI.

– Energía. La importación y distribución del 90 por ciento del gas que consume Grecia está en manos de la empresa DEPA, controlada por el Estado griego. El gobierno llamó a licitación en 2011 para avanzar con la privatización, pero el proceso quedó desierto en junio de 2013 cuando la firma rusa Gazprom se retiró sorpresivamente de la compulsa con el argumento de que el gobierno griego no había ofrecido suficiente información sobre la situación financiera de la empresa, aunque la cuestión geopolítica también influyó porque la troika no simpatiza con Rusia. Luego de ese traspié, las autoridades europeas y el FMI le pidieron en reiteradas ocasiones a Grecia que retome el proceso de venta, pero por ahora continúa pendiente, al igual que la ejecución del plan de reestructuración y privatización de la compañía de electricidad Public Power Corporation (PCC), diseñado por el gobierno de Samaras en 2013. El Estado tampoco se desprendió de las acciones en la petrolera Hellenic Petroleum, donde conserva un 35 por ciento. Lo que sí pudo vender Hradf es el 65 por ciento de la distribuidora de gas Desfa a la petrolera de Azerbaijan Socar por 400 millones de euros, aunque como el Estado sólo tenía el 31 por ciento de las acciones le ingresaron sólo 188 millones de euros.

– Propiedades y tierras. En los últimos años el gobierno comenzó a vender inmuebles y tierras en el centro de la ciudad, zonas costeras, islas e incluso en el extranjero. En marzo de 2013, Hradf convocó a una subasta para la privatización de 28 edificios estatales bajo la modalidad “sale and lease back” (compra y alquiler de vuelta). En octubre de ese año, le adjudicó 14 inmuebles a Pangaea, la filial inmobiliaria del Banco Nacional de Grecia, por 115,5 millones de euros y otras 14 propiedades a Eurobank Properties por 145,8 millones. Ambas firmas le alquilaron esos bienes al Estado por 30 millones de euros anuales. A su vez, el propio Estado se encarga de los gastos de mantenimiento y luego de 20 años tiene la opción de recomprar sus edificios o acordar un nuevo alquiler. Entre los inmuebles están las sedes de los ministerios de Cultura, Interior, Educación, Sanidad y Justicia, del Instituto Nacional de Estadística, de la secretaría de Hacienda y de la Jefatura de Policía de Tesalónica.

Ese mismo año Hradf vendió residencias en Londres, Belgrado, Bruselas y Nicosia por 41 millones de euros y le cedió por 99 años a la firma estadounidense NCH Capital los derechos de explotación de 50 hectáreas con playas incluidas en Kassiopi, al nordeste de la isla de Corfú. NCH desembolsó 23 millones de euros y se comprometió a invertir otros 75 millones para desarrollar el área. A su vez, Hradf anunció en febrero del año pasado que seleccionó la oferta del fondo árabe Jermyn Street Real Estate Fund IV LP para avanzar con la venta de Astir Palace Vouliagmenis, una firma estatal dedicada a la gestión de empresas turísticas y de hotelería. La oferta fue de 400 millones de euros, pero todavía no se concretó la adjudicación. Hradf también vendió un puñado de propiedades por Internet a través de subastas electrónicas. En un informe de junio de 2014, el FMI estimó que el gobierno griego todavía tiene más de 70 mil propiedades disponibles, aunque reconoce que la información sobre esos inmuebles es incompleta y muchos están deteriorados y/o ocupados. Hradf ofrece en su página web un largo listado de propiedades e incluso tierras en distintas islas del país.

– Lotería. El gobierno griego vendió en mayo de 2013 el tercio de las acciones que conservaba en la compañía de lotería pública OPAP al grupo Emma Delta, controlado por el inversor checo Jiri Smejc y el magnate griego Yorgos Melisanidis. De este modo, recaudó 650 millones de dólares. Hasta ahora fue uno de los mayores ingresos que reportó el proceso de privatización.

– Puertos. El gobierno de Samaras avanzó con la privatización del complejo portuario de El Pireo, donde posee el 67 por ciento de las acciones, y también del puerto de Tesalónica, donde conserva otro 67 por ciento. Apenas asumió, Tsipras frenó esa privatización, pero en marzo el viceprimer ministro griego, Yannis Dragasakis, aseguró durante una gira por China que esas privatizaciones continuarán. El anuncio no fue casual, pues el grupo chino Cosco es uno de los interesados en El Pireo. Sin embargo, hasta el momento la venta no se concretó.

fkrakowiak@pagina12.com.ar

Página/12 :: El mundo :: La pulseada por las joyas griegas

23/06/2015

Lá como cá os capachos dos EUA estão em evidência

Nestes dias de lesa pátria ao céu cor de anil deste Brasil que já foi varonil, deveria ser obrigatório reler a Carta Testamento de Getúlio Vargas. Principalmente para entender porque a mídia incensa a atitude do Senador José Serra de entregar a Petrobrás e seu pré-sal à Chevron e a mesma mídia condena Lula por trabalhar pela internacionalização de empresas brasileiras.

O velho coronelismo eletrônico quer a volta da diplomacia dos pés descalços.

Embora seja algo recorrente na história da humanidade é-me incompreensível que alguém que viva sob a bandeira de uma nação faça de tudo que rasga-la e submete-la aos espezinhamento de outra.

Na Guerra do Peloponeso, clássico do Tucídides, ve-se como os gregos nacionalistas tiveram de parir uma bigorna para vencer o poderio do Império Persa. Se a simples disputa entre David e Golias já é algo incomensurável, imagine Golias tendo de derrotar seus compatriotas que se fizeram de capacho para os golias Dario e Xerxes desfilarem. Até na pardigmática Batalha das Termópilas, os persas só conseguiram derrotar os 300 de Esparta por que Efialtes, o José Serra da época, traiu e entregou aos persas um atalho ao exército invasor.

Na Argentina e no Brasil os Efialtes são incubados na SIP e no Instituto Millenium, que por sua vez têm sob as asas o Grupos Clarín, Rede Globo, Folha, Estadão, Veja, RBS.

Se é verdade que praga de urubu não pega em cavalo gordo, também é verdade que há sempre um bando de abutres esperando pelo primeiro tropeção do cavalo.

PAPITA PA’L BUITRE

Por Werner Pertot

Gabriela Michetti empezó su campaña asegurando que se les debe pagar a los buitres lo que diga el juez Griesa. “Argentina no puede estar incumpliendo fallos”, dijo en línea con Macri. Economía calcula que esa posición costaría al país entre 17.800 y 22.000 millones de dólares, más de la mitad de las reservas

EL PAIS › GABRIELA MICHETTI, CANDIDATA A VICEPRESIDENTA DEL PRO, PROPUSO ACATAR EL FALLO DEL JUEZ GRIESA Y PAGAR

Los buitres ya tienen a quien ir a votar

A tono con lo que había declarado Mauricio Macri tiempo atrás, ayer, Michetti sostuvo que “Argentina no puede estar incumpliendo los fallos”, por lo que debe acatar lo resuelto por Griesa y pagarles a los fondos buitres.

Por Werner Pertot

La candidata a vicepresidenta del PRO, Gabriela Michetti, propuso acatar el fallo del juez Thomas Griesa y pagarles a los fondos buitre. “Lamentablemente, una vez que tenés el fallo encima, la Argentina no puede estar incumpliendo fallos”, afirmó la senadora PRO, en consonancia con lo que había manifestado su compañero de fórmula, Mauricio Macri, el año pasado. En ese momento, el jefe de Gobierno afirmó: “Si hay que pagar al contado, habrá que pagar el contado. Si regularizamos este tipo de situación y generamos confianza, estos números van a ser insignificantes”.

En caso de tener que pagar a todos los holdouts, la suma llega a un total de entre 17 y 22 mil millones de dólares.

Michetti intentó relativizar la posición de su líder político. “Estoy de acuerdo con batallar con el problema de los fondos buitres a nivel internacional y cambiar las normas que tiene el sistema internacional en relación con estos temas que les hacen mucho daño a los países”, afirmó la candidata a vicepresidenta en declaraciones radiales. Sin embargo, se mostró a favor de acatar el fallo de Griesa. “Si tenemos fallos que cumplir y normas que nos dicen que tenemos que cumplir una ley, yo siempre soy de cumplir leyes, normas y fallos”, afirmó Michetti.

En ese sentido, corroboró lo que ya había afirmado Macri hace menos de un año: “El tiempo se acabó –dijo entonces el aún procesado jefe de Gobierno–. Lo que corresponde para no seguir agravando las cosas, lo que hay que hacer es, con mucha tranquilidad, ir a la instancia que propone Thomas Griesa, no hay otra alternativa”, sostuvo en junio del año pasado. Luego insistió con que “si hay que pagar al contado, habrá que pagar el contado”.

En el momento en que Macri afirmó que había que pagar, el fallo de Griesa implicaba 1330 millones de dólares más intereses (unos 1800 millones actuales). Pero se discutía si eso no activaría la cláusula RUFO, que podría haber habilitado a quienes aceptaron la quita de la deuda a reclamar el mismo trato. Esa cláusula venció en enero de este año. Además, ya en ese momento se preveía que podían ingresar otros fondos al fallo de Griesa, algo que finalmente ocurrió: actualmente el monto a pagar llega a los 5500 millones de dólares y, si Griesa termina extendiéndolo al 7,6 por ciento de acreedores que no ingresaron al canje de deuda, llegaría a un total de entre 17 y 22 mil millones de dólares (ver nota aparte). Para ofrecer una comparación: las reservas del Banco Central llega en la actualidad a 33 mil millones.

En la entrevista radial, le preguntaron a Michetti si habría que pagar igual “aunque fuera un fallo de usura”. “El problema es que una vez que tuviste el fallo, fuiste vos el que también tuvo la culpa de llegar a ese lugar de no saber negociar bien y no saber hacer las cosas bien para llegar a ese lugar”, sostuvo la candidata a vicepresidenta del PRO.

Michetti consideró que el de los fondos buitres es “el gran problema, diría, del capitalismo internacional”. “En esto, la Argentina tiene que ser una de las abanderadas dentro de las naciones del mundo frente a ese problema, e incluso tener socios como Francia, como la misma Alemania, que son países que pueden estar de nuestro lado batallando contra esos fondos”, consideró la ex vicejefa. Sin embargo, insistió en que hay que pagar: “Tenemos fallos que nos dicen que tenemos que pagar cosas, porque nos hemos endeudado y hemos tenido problemas, y hemos llegado a no poder negociar bien y a no llevar bien las cosas”.

“Entonces, también hay una responsabilidad tuya. Porque del otro lado tenés una cosa horrible, espantosa, que es una injusticia enorme del sistema financiero internacional que no está resuelta, pero mientras tanto no podés incumplir las cosas porque te quedaste afuera de la lógica de la inversión y de los préstamos”, consideró la candidata.

En tanto, Michetti se mostró a favor de continuar con la Asignación Universal por Hijo en un eventual gobierno nacional del PRO: “Estamos totalmente de acuerdo en su continuidad y su fortalecimiento. Creemos que hay que hacerlo por ley. Hay que extenderla y debe ser realmente universal”, afirmó la ex vicejefa. “La Presidenta ha decidido hacerlo por decreto, pero nosotros creemos que tiene que ser una ley del Estado argentino”, insistió, aunque no hizo alusión a cuál será su posición frente al proyecto de ley enviado por el Ejecutivo para regular las actualizaciones de la AUH.

Sobre la posibilidad de privatizar Aerolíneas Argentinas, Michetti contestó: “El problema no es que sea pública o privada. Si es privatizada, que el Estado controle; si es pública, que administre el Estado, pero bien. Yo la mantendría y lo que haría seguro es una administración mucho más eficaz”. La candidata a vicepresidenta aprovechó para defender la continuidad en la Corte del juez Carlos Fayt, de 97 años: “Estoy convencida de que es una persona que todavía aporta. Si él está con esa convicción, tiene que seguir. Cuando él sienta que no puede aportar más lo va a comunicar porque es una persona que se nota que tiene lucidez”.

Sobre su (futuro) contrincante en las elecciones generales, el candidato a vicepresidente del Frente para la Victoria, Carlos Zannini, Michetti comentó que no lo conocía y se limitó a decir: “Sé que tiene un componente enormemente ideológico en su forma de ser. Yo no tengo una ideología cerrada. Tengo mis ideas y valores, pero soy una persona abierta a la riqueza de las diferencias”.

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24/02/2015

Honestidade, doença rara no Reino Unido, será tratada com terapia

E de repente fica-se sabendo que  a honestidade nos países ditos do primeiro mundo serão tratados como espécies em extinção. Ainda vão criar um greenpeace para defender, não a mata que existe nos outros países, mas a preservação dos últimos espécimes encontrados praticando honestidade.

Mais raros que urso panda ou arara azul, Bradley Manning, Julian Assange, Edward Snowden, Hervé Falciani vão merecer cuidados especiais, próprios de espécie em extinção.

Crescem no Reino Unido organizações de apoio a pessoas que denunciam irregularidades

Pablo Guimón Londres 22 FEB 2015 – 16:24 BRT

Ian Foxley, fundador de Whistleblowers UK.

Elas sempre existiram, mas este novo século parece ter proporcionado um papel protagonista às pessoas que decidem revelar irregularidades de dentro das organizações em que trabalham. A soldado Chelsea Manning, o analista da NSA Edward Snowden, o bancário Hervé Falciani. São apenas a ponta do iceberg de um fenômeno que no Reino Unido, por exemplo, serviu para expor graves deficiências na saúde pública, graças a centenas de testemunhos de corajosos trabalhadores anônimos. A verdadeira história dessas pessoas começa quando decidem dar esse passo.

Não temos uma tradução exata para a palavra inglesa whistleblower, que literalmente seria “soprador de apito”. Temos a expressão “dedo-duro”, que, no entanto, possui uma conotação negativa ausente no termo inglês. Ian Foxley, fundador do Whistleblowers UK, propõe “contadores da verdade” ou “heróis”. Engenheiro aeronáutico, jogador de rugby e tenente-coronel da reserva, Foxley, de 58 anos, conhece em primeira mão as duras consequências de contar a verdade. Por isso criou a organização sem fins lucrativos que pretende ajudar e assessorar aqueles que, como ele mesmo fez há cinco anos, decidem arriscar sua segurança e a de suas famílias para agir de acordo com seus princípios.

Em 2010 Foxley trabalhava para a Airbus em um contrato de mais de 2 bilhões de euros (6 bilhões de reais) entre o ministério da Defesa britânico e a Guarda Nacional saudita. Mas assim que chegou a Riad começou a ver coisas de que não gostou. “Entregaram-me um contrato que, como diretor, devia assinar”, explica, enquanto come um sanduíche de carne em um velho pub de York, a cidade inglesa mais próxima ao povoado onde vive agora com sua família. “Encontrei em uma linha do contrato uma série de pagamentos extras e me recusei a assinar. Eram remessas às ilhas Caiman, a empresas que eu não conhecia. Comecei a averiguar e a empresa se voltou contra mim. Entreguei as provas a um general do Exército britânico, que eu conhecia havia 20 anos. Ele falou com o ministério em Londres, e lá disseram a ele para devolver os documentos à empresa. Foi o que ele fez. Depois me ligaram da empresa para dizer que o que eu tinha feito, na Arábia Saudita, constituía crime de roubo de informação e que iam me prender”.

Foxley conseguiu voltar a Londres e levou o caso à Justiça. O julgamento deve acontecer ainda este ano. Foxley, pai de três filhos, ficou sem trabalho e se transformou, diz ele, em uma espécie de pária. “Quando você denuncia a uma grande empresa há um desequilíbrio de recursos”, explica. “Perde seu emprego, suas economias, e tem dificuldades para voltar a trabalhar no mesmo setor. O dinheiro começa a ser um problema. Meus filhos e minha esposa me compreenderam e me ajudaram muito. Somos católicos, e a religião desempenhou um papel importante ao me proporcionar um contexto moral para medir minhas ações. Mas é uma experiência muito solitária”.

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Foxley decidiu entrar em contato com outras pessoas que tinham passado pela mesma situação. Montaram uma estrutura para oferecer apoio mútuo e lutar por mudanças legais que protejam quem decide dar esse passo. O Whistleblowers UK – que não é a única organização deste tipo no Reino Unido – faz tudo isso online, com um software que transfere as chamadas entre os sócios e as oculta. Nem mesmo tem uma sede física e é financiado com doações.

A entidade recebe em média dez chamadas por dia, de diferentes países. “Primeiro esclarecemos que tudo o que dirá é confidencial e oferecemos a possibilidade de permanecer no anonimato”, explica. “Dizemos que nossos conselhos vêm da experiência, que nós também passamos por isso. Conforme o setor de procedência, seja Educação, Saúde, Igreja, colocamos a pessoa em contato com denunciantes do mesmo setor. Pomos ao seu dispor nossos conselheiros jurídicos e terapêuticos. E temos uma lista de contatos de jornalistas de diferentes veículos de imprensa”.

O Whistleblowers UK propõe criar uma espécie de escritório do denunciador. “Um ombudsman independente, com representantes em cada setor da sociedade, com recursos e poderes para investigar”, explica Foxley. “As multas impostas às organizações serviriam para financiá-lo e para indenizar aos pessoas que decidem dar esse passo”.

O que caracteriza essas pessoas, diz Foxley, é que atuam “de boa fé”. “Em determinado momento, não vemos outra opção a não ser denunciar uma situação injusta”, explica. “Eu, em minha vida normal, se vir alguém atacando a uma pessoa, tentarei detê-lo. Se vir alguém roubando, irei atrás dele. É a mesma coisa. Por que fiz o que o fiz? Porque era o certo”.

Terapia para dedos-duros | Internacional | EL PAÍS Brasil

Empresas espanholas trazidas por FHC só trouxeram corrupção

Alguém ainda há de lembrar que o processo de privatizações começou com a entrega da CRT por Antonio Britto aos seus ex-patrões da RBS que formaram consórcio com a Telefônica de Espanha. A tentativa de apropriação do Estado pela RBS não começava aí, mas foi com a entrega da CRT que ficou escancarado que a RBS estava determinada a se infiltrar no Estado. Se a Telefônica passou a perna nos donos da RBS também é verdade que não desistiram de terem a chave dos cofres do Estado nas mãos de seus funcionários. O cavalo do comissário perdeu para Olívio Dutra, saiu pela porta dos fundos escondido no manto do capacho Pedro Simon, e foi se desintoxicar do mal das alterosas que também acomete Aécio Neves, na Espanha. Por mera coincidência, terra que entrara cisplatina via RBS mas que também arrematara por algumas bananas o Meridional.

A Zara, da Inditex, e outras espanholas já estiveram também envolvidos em trabalho escravo. Agora é a vez da rede de supermercados se envolverem em sonegação. Aliás, esta deve ter sido a razão pela qual o PSDB resolvera trazer de fora tantas empresas corruptas e corruptoras. São de mesma natureza. Nem em dez mandatos o PT conseguirá se livrar da herança maldita espalhada nos vários níveis do Estado de esqueletos espalhados pelo PSDB. Por falar nisso, quando sairá Gilmar Mendes, exemplo maior da herança maldita deixada por FHC.

Está aí uma boa pauta para colonista do El País, Juan Árias, puxa-saco da direita tupiniquim. Ele que ficou famoso nas altas rodas por reclamar que os brasileiros não reagem contra a corrupção, poderia começar explicando se a Espanha tem outros produtos, além da corrupção e do trabalho escravo para exportar. Nem precisa comentar a diferença entre o nível de desemprego (27%) na Espanha em relação ao Brasil (4,6%) por que aí já seria esperar demais de um ventríloquo, de uma pena de aluguel.

Rede espanhola Dia tem disputas milionárias com o fisco de três países

O Brasil exige da rede de supermercados mais de 90 milhões por questões fiscais

A França exigiu pagamentos por arredondar o IVA e a Espanha, pelo imposto de sociedades

Cristina Delgado Madri 23 FEB 2015 – 20:00 BRT

Unidade do supermercado Dia em Madri. / JUAN MEDINA (REUTER

A rede de supermercados Dia está envolvida em várias disputas fiscais em diferentes países. A mais cara delas é no Brasil. O grupo reconhece em seu relatório anual, entregue à Comissão Nacional do Mercado de valores, que recebeu duas notificações das autoridades fiscais brasileiras.

A primeira, na qual exigem 13,34 milhões de euros (mais de 40 milhões de reais), é por “discrepância do imposto referente às receitas com descontos recebidos de fornecedores”. A segunda, de 77,65 milhões de euros (cerca de 253 milhões de reais), “em relação ao reflexo dos movimentos de mercadorias e sua repercussão em inventários”. A empresa qualifica como “remota” a possibilidade de perder o litígio e não disponibilizou os recursos.

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O Dia já teve de pagar no Brasil “2,2 milhões de euros por processos trabalhistas e 1,7 milhões relativos a outros riscos operacionais”. Além disso, a empresa reservou dinheiro para outras disputas: 4,46 milhões para o Dia França, “pelo custo financeiro associado a litígios pelo arredondamento do IVA (imposto sobre valor agregado) nos decimais do euro dos exercícios 2006, 2007 e 2008”.

A rede reconhece, além disso, que pagou, na Espanha, 3,86 milhões de euros pelo Imposto de Sociedades de 2008 e 2,85 milhões depois de uma inspeção do mesmo tributo de 2008, 2009 e 2010.

Por outro lado, a empresa também suspendeu os fundos que tinha guardado para outros possíveis pagamentos que considera que já não serão necessários. Por exemplo, 3,54 milhões de euros “correspondentes à anulação parcial do fundo criado no exercício 2013 para enfrentar riscos derivados da venda do Dia à Turquia”. Também 2,17 milhões que tinha reservado “para enfrentar inspeções dos exercícios 2008, 2009, 2010 e 2011. Além disso, o exercício inclui a anulação de outros recursos criados para cobrir outros riscos fiscais no valor de 1,26 milhão e depois da saída dos resultados do Dia França “foram cancelados os riscos fiscais, legais e sociais” no montante de 9,23 milhões de euros.

Economia: Rede espanhola Dia tem disputas milionárias com o fisco de três países | Economia | EL PAÍS Brasil

04/01/2015

Perseguição e cerco à Petrobrás continua

Todo dia vazam interesses internacionais à Petrobrás. Desejo antigo, todo ano novo é renovado. A velha mídia, atende quem a finanCIA! Conforme revelou Edward Snowden, a NSA perseguia e grampeava a Petrobrás. Imagine o Brasil fazendo com os EUA o que eles estão querendo fazer com a Correia do Norte porque a Sony  foi hackeada… Para se ter uma ideia de quem finanCIA os a$$oCIAdos do Instituto Millenium basta ver o tratamento que eles dão a estes dois episódios: hackeamento da Sony e arapongagem da NSA na Petrobrás. Em ambos os episódios se posicionam como capachos dos EUA.

Já sabemos muito bem como são estas ONGs sempre a serviço dos interesses do EUA.

Um cara da África do Sul, a colônia do Apartheid, quer nos mostrar transparência? É o mesmo tipo de política do Greenpeace. Só vale para adversários dos EUA. Vamos ver como eles atuaram quando do vazamento de petróleo da BP no Golfo do México, que foi o maior derramamento de petróleo da história dos Estados Unidos. Foram 11 mortos – todos trabalhadores da plataforma, o vazamento de 4,7 milhões de barris de óleo e o comprometimento do litoral de cinco estados, além da habitat marinho. Prejuízo incalculável e irrecuperável.

Essa gente de boa aparência, com cara de padre pedófilo, só engana trouxas. Se querem transparência, exijam dos EUA as provas das armas de destruição em massa no Iraque. Ou de que foi o Governo da Correia do Norte que hackeou a Sony. Ou de como agiu a Inglaterra ao maior dano ecológico ao Golfo do México depois do meteorito que causou a fim dos dinossauros.

Procure no google pelo nome do entrevistado do Estadão, Cobus de Swardt e associe à British Petroleum – BP e terás uma surpresa. Aliás, não terás surpresa alguma. Não há nenhuma manifestação dele sobre o assunto…

Pós-Lava Jato, Globo prega a abertura do pré-sal 

Maílson da Nóbrega quer pré-sal para estrangeiros

Imagens do vazamento da BP no Golfo do México

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Entrevista. Cobus de Swardt

Chefe da Transparência Internacional vê chance de País enviar recado ao mundo

‘Dilma precisa fazer da Petrobrás um exemplo de transparência’

Jamil Chade

03 Janeiro 2015 | 18h 28

GENEBRA – O governo brasileiro poderá enviar uma forte mensagem neste segundo mandato da presidente Dilma Rousseff se transformar a Petrobrás num “exemplo de transparência e não tolerância com a corrupção”, diz Cobus de Swardt, diretor-gerente da ONG Transparência Internacional, uma das principais entidades de combate a malfeitos do mundo. 

Divulgação

Cobus de Swardt, chefe da Transparência Internacional

O sociólogo sul-africano, que esteve no Brasil em dezembro para uma série de reuniões com autoridades, afirma que essa sinalização do governo tem de ser feita já, a partir de medidas concretas de Dilma. “Não haveria uma mensagem mais forte vinda do Brasil ao resto do mundo mostrando que essa empresa gigante pode mudar para melhor”, diz Swardt, ao comentar a série de escândalos de corrupção envolvendo a estatal petrolífera. 

Em seu discurso de posse, na quinta-feira, Dilma afirmou que defenderá a Petrobrás de “predadores internos” e de “inimigos externos”.

Veja os principais trechos da entrevista do chefe da Transparência Internacional concedida ao Estado:

Como o sr. vê a sequência de escândalos de corrupção no Brasil em 2014?

Infelizmente, a corrupção existe em todos os países. Nenhuma região ou continente está isento desse desafio. No meu país, a África do Sul, temos visto vários escândalos nos últimos anos. Lá, a corrupção é reconhecida como um sério obstáculo à justiça social e à luta contra pobreza e desigualdade. Nem os países no topo do índex da Transparência Internacional da Percepção de Corrupção estão livres de casos de corrupção. A chave é como um país lida com os casos uma vez que são revelados. Países como a Dinamarca, Nova Zelândia e Finlândia estabeleceram um amplo consenso que integridade e responsabilidade são fatores críticos para o sucesso de seus sistemas de governança. Isso não evita totalmente a corrupção. Mas garante uma forma de detectá-la e punir uma vez que ocorra. Voltando ao Brasil, sim, o País tem visto diversos casos de corrupção que chegaram ao público e que foram notícia até mesmo fora do País. Os mais importantes estão relacionados à Petrobrás, que está atraindo muita atenção diante da magnitude do dinheiro desviado da empresa e suas relações aparentes com pessoas na comunidade empresarial e alguns políticos. Existem ainda vários problemas com governos locais pelo País, como as alegações sobre o Metrô de São Paulo e suas relações com políticos locais e empresas estrangeiras. 

O que isso revela do Brasil?

O que é interessante é que escândalos de corrupção que são abertamente debatidos na mídia não significam necessariamente que exista mais corrupção no Brasil, se comparado com anos anteriores ou com outros países. As discussões frequentes e informações sobre corrupção que vemos no Brasil podem também nos dizer que o País tem uma postura aberta para encarar o problema e que os casos não estão mais sendo varridos para baixo do tapete. Durante a campanha eleitoral, a questão esteve presente de forma importante nos debates dos candidatos. Eu, pessoalmente, experimentei essa abertura quando visitei o País no início de dezembro. Tive conversas francas e cândidas com muitas pessoas, independente de sua cor política.

As instituições brasileiras estão preparadas para lidar com a corrupção?

Existem instituições no Brasil que podem lidar com o desafio. Outras estão dispostas a fazê-lo, mas precisam de maior força. E, claro, algumas não estão prontas para o desafio. Sou cuidadoso em não julgar todas as instituições num mesmo pacote. Por exemplo, tenho um profundo respeito pelos esforços da CGU (Controladoria-Geral da União). A tarefa não é fácil em um território tão grande. Também estive reunido com juízes e procuradores extremamente corajosos e comprometidos e que fazem o possível para realizar seus trabalhos de forma correta. Mas existem alguns desafios institucionais que enfrentam, como a falta de recursos ou de leis que precisam ser reformadas e atualizadas para que eles possam trabalhar de forma mais ágil e eficiente. Não podemos esquecer que instituições são criadas por homens e mulheres e, portanto, sempre podem melhorar. É por isso que é importante manter o controle sobre elas e debatê-las em uma sociedade democrática como o Brasil. Um aspecto que não pode ser ignorado é a natureza do sistema político no Brasil. Existem desigualdades entre as regiões. 

Qual impacto os escândalos podem ter na sociedade e na democracia?

Esse impacto pode ser muito importante. Mas ele pode ir por dois caminhos opostos. Se os casos de corrupção forem ignorados e ninguém pagar por eles depois de terem sido investigados e julgados, então isso vai minar a democracia. Estado de Direito e Justiça são vitais para sustentar uma democracia saudável. Se a corrupção prevalecer e houver impunidade aos corruptos, a democracia vai sofrer. De outro lado, se aqueles que devem pagar são punidos e se estabelecem mecanismos para prevenir novos casos, então a democracia está avançando. É triste ver que na América Latina, e não apenas no Brasil, as instituições que lidam de forma mais direta com a vida democrática, como partidos políticos e Parlamentos, tendem a gozar da mais baixa confiança e tendem a ser vistos pela população como aqueles afetados pela praga da corrupção. Várias pesquisas mostram isso. No ano passado, oito de cada dez brasileiros questionados acreditam que os partidos são corruptos ou muito corruptos. Lidar com casos de corrupção, sancionar corruptos, evitar premiar políticos corruptos com nossos votos, essas são as formas para reverter a percepção negativa se queremos que a democracia ganhe força e seja saudável.

Quais desafios a presidente Dilma Rousseff terá em 2015?

Para a presidente, os escândalos recentes de corrupção se traduzem em um início desafiador para seu novo mandato. Mas é também um momento aberto para oportunidades. O que ela fizer nas próximas semanas será extremamente importante. 

Qual deve ser sua resposta em relação à crise na Petrobrás?

Da maior importância será a atitude que ela (Dilma) tomará em relação à Petrobrás. Ela precisa encontrar um equilíbrio bom e honesto entre não interferir no trabalho da Justiça, na condição de chefe do Executivo, mas ao mesmo tempo liderar esforços para fazer da Petrobrás um exemplo de não tolerância em relação ao comportamento corrupto. Ela precisa também trabalhar para tornar essa imensa empresa em um exemplo de transparência. Não haveria uma mensagem mais forte vinda do Brasil ao resto do mundo que mostrando que essa empresa gigante pode mudar para melhor. 

A corrupção pode ser neutralizada?

Certamente, caso contrário eu estaria me dedicando a outro emprego. Gosto da forma que você colocou a questão, apontando para a neutralização do problema. Isso parece mais realista que fazer a corrupção desaparecer completamente. A corrupção pode ser neutralizada. Mas não existe uma fórmula e fatores precisam ser combinados. Você precisa que as vítimas entendam que estão sendo afetadas pela corrupção e que exijam que ele seja parada. Você precisa de instituições que possam intervir de forma eficiente para punir e prevenir. Você também precisa mudar a forma pela qual a sociedade vê a corrupção. E isso tem uma relação com valores e educação. Não é fácil neutralizar a corrupção. Mas é possível. Temos as vítimas, temos os valores e quem em sua mente sã apoiaria ladrões? Temos ainda multidões que podem dizer “não” à corrupção. O que precisamos fazer é agir e unir essas vozes. As pessoas precisam parar de tolerar a corrupção.

02/01/2015

Brasil x EUA: demonstração de protagonismo começa se fazendo respeitar

Filed under: Brasil,EUA,Imperialismo Colonial,Petrobrax,Petrobrás,Tio Sam — Gilmar Crestani @ 9:17 am
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estamos unidosO Brasil deixou de ser uma republiqueta de bananas. Não devemos esquecer que nos dois governos de FHC nossos diplomatas precisavam tirar os sapatos para entrarem nos EUA. Esta subserviência do passado não pode voltar sob pena de regredirem os avanços democráticos alcançados. Submeter-se aos EUA é o primeiro passo para a regressão institucional. Faz-se respeitar quem primeiro se respeita, quem não tem complexo de vira-lata.

Como diz o ditado, o inimigo parece maior quando o olhamos de joelhos. Olho no olho vê-se que não passam de uma máquina de propaganda de Hollywood que recruta, mediante trinta dinheiros, uma mídia subserviente e seus colonistas de quinta coluna.

Dilma não pode esquecer que as espionagem da NSA, denunciada por Edward Snowden, visa a destruição da Petrobrás para que, uma vez em frangalhos, possam adquiri-l a preço de banana. FHC tentou quando no governo, via Petrobrax, depois ainda a prometeu, caso José Serra fosse eleito, à Chevron.

O próximo passo deveria ser aumentar do dólar para impedir que nossos vira-latas continuem indo à Miami comprar quinquilharias de fabricação chinesa.

Vice dos EUA pede ajuda do Brasil com Cuba

Visita de Joe Biden à posse de Dilma Rousseff é vista como passo para retomar relações, abaladas por espionagem

Integrantes do governo afirmam que presidente fará visita de Estado aos EUA, cancelada em 2013, até setembro

ANDRÉIA SADIFLÁVIA FOREQUEVALDO CRUZDE BRASÍLIA

A presidente Dilma Rousseff e o vice-presidente dos Estados Unidos, Joe Biden, discutiram nesta quinta-feira (1º) em Brasília formas de o Brasil ajudar no processo de reaproximação dos norte-americanos com Cuba.

fhc submissoBiden acompanhou a posse de Dilma no Palácio do Planalto e se reuniu com ela por cerca de uma hora no Itamaraty, no início da noite. Integrantes do governo disseram que a intenção de Dilma é fazer uma visita de Estado aos EUA até setembro.

A vinda de Biden ao Brasil representa mais um gesto da Casa Branca após o estremecimento causado pelas revelações de espionagem em setembro de 2013.

O vice de Barack Obama é a autoridade mais graduada enviada para uma posse presidencial brasileira desde Fernando Collor –em 1990 o então vice-presidente, Dan Quayle, veio para a posse do primeiro mandatário eleito pelo voto direto após a ditadura militar (1964-1985).

No encontro desta quinta, realizado a portas fechadas, Dilma e Biden discutiram o que pode ser feito e o papel do Brasil para auxiliar na distensão da relação com a ilha de Fidel e Raúl Castro.

Os Estados Unidos e Cuba retomaram relações diplomáticas em dezembro após 53 anos. O acordo histórico foi mediado pelo papa Francisco e prevê reabertura de embaixadas e medidas em setores como comunicações, turismo e bancos.

Na ocasião, o Brasil chegou a ser informado do acordo momentos antes da declaração oficial.

Integrantes do Itamaraty afirmam que a participação de Cuba na Organização dos Estados Americanos (OEA) também foi discutida por Dilma e Joe Biden.

Ao deixar o Itamaraty, o vice-presidente dos EUA falou rapidamente com a imprensa e demonstrou otimismo. "É um novo começo."

Após as revelações de que foi um dos alvos da espionagem norte-americana, Dilma chegou a cancelar a visita de Estado que faria a Washington, em outubro de 2013.

Questionado se a presidente brasileira planeja retomar a viagem, Biden respondeu: "Espero que sim".

À noite, a Casa Branca divulgou nota sobre o encontro afirmando que Dilma e o vice-presidente dos EUA "concordaram sobre a necessidade de [os dois países] trabalharem em uma parceria equitativa para o desenvolvimento de uma agenda robusta e ambiciosa de cooperação bilateral, regional e global renovadas".

Na tarde desta quinta (1º), Dilma deu posse ao novo chanceler brasileiro, Mauro Vieira, então embaixador do país em Washington.

Ao lado de seu antecessor, Luiz Alberto Figueiredo, o novo titular do Ministério das Relações Exteriores acompanhou o encontro com Biden.

14/06/2014

Concluída a guerra do gás, na Ucrânia, vem aí a do pré-sal, no Brasil

 

Mueren 49 militares ucranios al abatir milicianos prorrusos su avión

El ataque se ha producido cuando la aeronave estaba aterrizando en el aeropuerto de Lugansk

Agencias Kiev 14 JUN 2014 – 14:07 CET372

Restos del avión derribado en el aeropuerto de Luhansk. / Evgeniy Maloletka (AP)

Las milicias prorrusas han abatido este sábado un avión militar de carga ucranio y han matado a los 49 ocupantes de la aeronave. El ataque se ha producido cuando el aparato del Ejército ucranio aterrizaba en el aeropuerto de Lugansk (este del país), según ha informado un portavoz militar. Es uno de los ataques más graves del actual periodo de inestabilidad y enfrentamientos que atraviesa la región. Desde el inicio de la operación militar contra los separatistas del Este, el pasado 2 de mayo, estos han logrado abatir media docena de aeronaves del Ejército ucranio en Donetsk y Lugansk, las dos provincias  alzadas contra Kiev a principios de abril y que declararon su independencia tras el referéndum del pasado 11 de mayo.

La aeronave, un Ilyushin IL-76 de transporte militar, fue derribada con un cañón antiaéreo durante el aterrizaje. La agencia ucraniana TSN ha señalado que el pasaje del avión incluía paracaidistas de la Brigada Aeromóvil 25 y tripulantes.

más información

El presidente de Ucrania, Petro Poroshenko, prometió "una respuesta adecuada a los terroristas" por el ataque. "Todos los implicados en un cínico acto terrorista de esta envergadura serán castigados. Ucrania necesita la paz, pero los terroristas tendrán una respuesta adecuada", dijo el presidente ucraniano, citado por el gabinete de prensa de su administración. Poroshenko, que tras ser elegido presidente el pasado 25 de mayo prometió acabar con la rebelión prorrusa "en horas, no en días", ordenó celebrar una reunión extraordinaria del Consejo de Seguridad Nacional y Defensa

El derribo de la aeronave en Lugansk ha tenido lugar horas después de que las tropas del Gobierno ucranio arrebatasen a los prorrusos el control de la ciudad de Mariúpol y retomaran varios puestos de control en la frontera con Rusia, y también de que el Departamento de Estado norteamericano confirmase el envío por Moscú de tanques y armamento pesado a los rebeldes ucranios en los últimos tres días.

Nuevas negociaciones sobre el gas

Mientras tanto, Rusia y Ucrania volverán este sábado a reunirse en Kiev para buscar una salida a la disputa que mantienen sobre el suministro del gas ruso a territorio ucraniano, confirmó el portavoz oficial del monopolio gasístico ruso Gazprom, Serguéi Kupriyánov.

"Ahora estamos preparando una nueva reunión en Kiev, que se celebrará en un formato distinto de las consultas anteriores. (…) La postura rusa en las negociaciones con Ucrania sobre el gas es clara y consecuente. Queremos buscar compromisos pero es inútil intentar presionarnos", dijo Kupriyánov a la agencia Interfax.

Fuentes del Gobierno ucraniano y de la Comisión Europea adelantaron hoy a varios medios internacionales que Rusia ha dado marcha atrás y ha aceptado mantener otra reunión negociadora antes de cumplir con su ultimátum y cortar el suministro de gas a Ucrania si no recibe hasta el lunes parte del dinero que le adeuda Kiev.

Mueren 49 militares ucranios al abatir milicianos prorrusos su avión | Internacional | EL PAÍS

31/05/2014

Tudo o que o primeiro mundo tinha a nos ensinar, veio na ditadura

Filed under: BBC,Ditadura,Imperialismo Colonial,Inglaterra — Gilmar Crestani @ 12:59 pm
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Ditadura x liberdade

Tortura à Inglesa

Enviado por Edsonmarcon, sab, 31/05/2014 – 00:33

Autor: Enviado por Edson Marcon

Na véspera de uma visita do então presidente Ernesto Geisel à Grã-Bretanha, em 1976, havia uma referência indireta à uma "reforma da tortura". Uma das cartas fala de "padrões aceitáveis de interrogatório (por exemplo, o que é permitido na Irlanda do Norte)".

http://www.bbc.co.uk/portuguese/noticias/2014/05/140530_tortura_grabreta…

Britânicos ensinaram ‘tortura psicológica’ a militares brasileiros na ditadura

Emily Buchanan   –  Repórter de Assuntos Internacionais da BBC

Paulo Malhães

Documentos e depoimentos obtidos com exclusividade pela BBC revelam um lado pouco conhecido da ditadura militar brasileira – a de que autoridades da Grã-Bretanha colaboraram com generais brasileiros – inclusive ensinando técnicas "avançadas" de interrogação equivalentes a tortura. A repórter da BBC Emily Buchanan apurou a história.

Alvaro Caldas pertencia a um grupo comunista quando foi preso em 1970. Ele passou dois anos preso dentro de um quartel da polícia militar no Rio de Janeiro.

Ele foi submetido a espancamentos, choques e pendurado no "pau de arara" – amarrado de cabeça para baixo por horas.

Ao ser solto, ele desistiu da política e passou a se dedicar ao jornalismo esportivo. Em 1973, voltou a ser preso. Caldas foi levado ao mesmo prédio, mas tudo estava diferente por lá.

"Desta vez, a cela estava limpa e esterilizada, com um cheiro nauseante. O ar condicionado era muito frio. A luz estava permanentemente acesa, então eu não tinha ideia se era dia ou noite. Eles alternavam sons muito altos e depois muito baixos. Eu não conseguia dormir de jeito nenhum."

Alvaro conta que a sensação avassaladora que sentia era medo. De tempos em tempos, alguns oficiais entravam na cela, o encapuzavam e levavam para interrogações. Ele sentia que o objetivo era desestabilizá-lo, fazendo-o confessar algum crime que não havia cometido.

Isso não era tortura física, mas sim uma pressão psicológica intensa.

"Por sorte, só passei uma semana lá. Se tivesse ficado duas semanas ou um mês, teria enlouquecido."

‘Sistema inglês’

Esta nova técnica de interrogação ficou conhecida como "sistema inglês". Depoimentos coletados pela Comissão Nacional da Verdade – criada pelo governo para investigar episódios ocorridos durante a Ditadura Militar – explicam o porquê.

Nas mais de 20 horas de seu depoimento, o coronel Paulo Malhães – um dos mais temidos torturadores e que morreu poucos dias depois – ganhou destaque nacional ao confessar ter torturado e mutilado diversas vítimas.

Malhães expressou grande admiração pela tortura psicológica que, para ele, era muito mais eficiente do que a força bruta, especialmente quando a tentativa era de transformar militantes de esquerda em agentes infiltrados.

"Naquelas prisões com portas fechadas, você podia mudar a temperatura, a luz, tudo dentro da prisão. A ideia veio da Inglaterra", disse ele.

Ele admitiu, em conversa em privado com a advogada e integrante da Comissão da Verdade do Rio, Nadine Borges, que viajou à Inglaterra para aprender técnicas de interrogação que não deixavam marcas físicas. Borges relatou detalhes de sua conversa com Malhães à BBC.

"A melhor coisa para ele era a tortura psicológica. Ele também esteve em outros lugares, mas disse que a Inglaterra foi o melhor lugar para aprender."

‘Melhor escola’

O professor Gláucio Soares entrevistou vários generais nos anos 1990. Muitos contaram que enviaram militares à Alemanha, França, Panamá e Estados Unidos para aprender sobre interrogatórios, mas todos elogiaram a Grã-Bretanha como o melhor lugar de aprendizado.

O general Ivan de Souza Mendes teria dito a Soares: "Os americanos também ensinam, mas os ingleses é que são os mestres em ensinar como arrancar confissões sob pressão, por tortura, de todas as formas. A Inglaterra é o modelo de democracia. Eles dão cursos aos seus amigos".

O general Fiuza de Castro disse que os britânicos recomendam deixar os prisioneiros nus antes de interrogá-los, para deixá-los angustiados e deprimidos – um estado que favorece o interrogador.

As técnicas teriam sido criadas nos anos 1960 em territórios britânicos na Ásia e aperfeiçoadas contra militantes na Irlanda do Norte.

O método ficou consagrado em inglês como "Five Techniques", ou "Cinco Técnicas":

  • Manter a pessoa de pé contra uma parede por muitas horas
  • Encapuzar
  • Sujeitar a grandes barulhos
  • Impedir o sono
  • Pouca comida e água

Muitos dizem que essas técnicas equivalem à tortura. Em 1972, elas foram oficialmente proibidas pelo premiê Edward Heath, depois que o público tomou conhecimento que eram usadas contra os militantes irlandeses do IRA.

Mas no Brasil, os métodos de interrogatório psicológico seguiram adiante, atendendo as necessidades dos militares. O péssimo histórico de direitos humanos do Brasil estava começando a atrair publicidade negativa no mundo. Um método que não deixava marcas físicas era considerado perfeito pelos militares para extrair informações.

Aparentemente, não só os militares brasileiros foram à Grã-Bretanha, mas o inverso também aconteceu. O ex-policial Claudio Guerra disse que agentes britânicos deram cursos no quartel-general da polícia militar sobre como seguir pessoas, grampear telefones e usar as celas isoladas.

Guerra disse que viu esses agentes britânicos nas ocasiões em que visitou o quartel-general para recolher corpos de vítimas que sofreram com os métodos antigos.

Correspondências

Há mais pistas sobre a relação entre militares britânicos e brasileiros no prédio dos Arquivos Nacionais, na região londrina de Kew.

Em agosto de 1972, o então embaixador britânico no Brasil, David Hunt, escreveu uma carta secreta a uma autoridade com referência aos métodos mais sofisticados usados pelos brasileiros.

Ele escreveu: "Como você sabe, eu acho, eles (os militares brasileiros) foram influenciados por sugestões e conselhos emitidos por nós; mas esta conexão não existe mais… É importante que o conhecimento deste fato fique restrito."

Na véspera de uma visita do então presidente Ernesto Geisel à Grã-Bretanha, em 1976, havia uma referência indireta à uma "reforma da tortura". Uma das cartas fala de "padrões aceitáveis de interrogatório (por exemplo, o que é permitido na Irlanda do Norte)".

Um documento intitulado "Tortura no Brasil" classificado como "confidencial" fala da péssima publicidade que o Exército brasileiro estava recebendo mundialmente, e de como foram adotadas novas técnicas baseadas em métodos psicológicos.

"O Primeiro Batalhão do Rio estaria usando agora as novas técnicas, cuja introdução foi descrita por um comandante do Exército como uma página tirada da cartilha britânica."

A correspondência do ministério britânico das Relações Exteriores deixa claro que interesses comerciais eram de suma relevância e que o péssimo histórico de direitos humanos do Brasil era subestimado.

Alan Munro, que foi cônsul geral britânico no Rio nos anos 1970, disse que, pessoalmente, não tinha conhecimento da colaboração dos militares britânicos.

"Se os brasileiros estavam procurando técnicas de interrogatório usadas por autoridades britânicas, o melhor exemplo vinha dos primeiros anos da Irlanda do Norte. Isso teria sido aprendido por inciativa dos brasileiros, e no sentido de reduzir as práticas mais crueis, isso teria sido um passo no caminho certo", diz Munro.

Mas os brasileiros não veem isso como "um passo no caminho certo".

O diretor da Comissão da Verdade do Rio, Wadih Damous, disse que há anos conhece o envolvimento dos Estados Unidos no treinamento de militares do regime brasileiro, e que ficou indignado ao tomar conhecimento do papel dos britânicos.

"É sempre chocante ouvir que uma democracia que é tão importante, tão consolidada, tão velha, colaborou com a ditadura", disse Damous.

A BBC pediu uma declaração oficial ao ministério das Relações Exteriores da Grã-Bretanha. Um porta-voz disse que "não pode fazer comentários sobre administrações passadas", mas que qualquer política atual do governo de colaboração internacional cumpre com exigências de direitos humanos estabelecidas dentro do país.

Tortura à Inglesa | GGN

27/04/2014

Tropas russas chegam ao México em meio à tensão com Cuba

Na imagem o senador norte-americano John MCcain (Caim!) da pás. Por onde ele passa, a maioria dos corpos são cobertos com pás. Alguns, seus soldados cobrem com urina

ucrainianTropas americanas chegam à Lituânia em meio à tensão na Ucrânia

Reuters – 20 horas atrás

    SIAULIAI, Lituânia, 26 Abr (Reuters) – Os Estados Unidos posicionaram 150 soldados paraquedistas na Lituânia neste sábado, como parte dos esforços de Washington para assegurar seus aliados da Europa Oriental preocupados com os acontecimentos na Ucrânia que a OTAN vai oferecer proteção se eles enfrentarem uma agressão russa.

Um total de 600 soldados norte-americanos serão enviados para a Polônia e países bálticos da Estônia, Letônia e Lituânia para exercícios de infantaria. Eles devem permanecer na região em sistema de rodízio até o final do ano.

"Na hora que as ameaças surgem, podemos ver quem são nossos reais amigos", disse a presidente da Lituânia, Dalia Grybauskaite, quando cumprimentava os soldados na base aérea de Siauliai. "Os países bálticos e a Polônia estão na fronteira da OTAN, portanto, mais medidas de segurança são necessárias com urgência. Esse acréscimo de tropas americanas é muito oportuno e muito necessário", ela disse.

Sem mencionar a Rússia, a presidente da Lituânia afirmou que a presença de tropas dos EUA vai "repelir aqueles que ameaçam a estabilidade na Europa e a paz na região", já que uma invasão à Lituânia envolveria os norte-americanos.

Além dos paraquedistas dos EUA, a OTAN disse que vai triplicar o seu número habitual de caças patrulhando o Báltico no mês que vem para melhorar suas defesas na Europa Oriental.

(Por Andrius Sytas)

11/03/2014

Os EUA contra a Venezuela

Filed under: Imperialismo Colonial,Isto é EUA!,Terrorismo de Estado — Gilmar Crestani @ 9:04 am
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Quando os EUA libertarem seus presos políticos Bradley Manning, Julian Assange e Edward Snowden, só aí poderão cobrar de outros países tratamento idêntico. Quem deu aos EUA o direito de dizerem o que é bom para a Venezuela, Brasil, Colômbia, Chile, Argentina, Criméia, Vietnã, Irque, Síria, Líbia?! Todas as ditaduras implantadas abaixo do Rio Colorado o foram com participação direta dos EUA. Os EUA são hoje a maior sementeira de terroristas. São eles que treinam e financiam golpistas. Os EUA já estão merecendo um lema: cidadão norte-americano bom é aquele envolto na bandeira deles, dentro de um saco de viagem, nos bagageiros de avião.

Os EUA contra a Venezuela: a Guerra Fria esquenta

Nil  Nikandrov

NIL NIKANDROV 10 de Março de 2014 às 08:03

O governo de Maduro está fazendo tudo que pode para contrabalançar a propaganda hostil com que Washington está tentando agravar a situação na Venezuela, obtendo assim um pretexto para interferir nos assuntos internos do país

(originalmente publicado na Rede Voltaire)

Durante o recente carnaval na Venezuela, os focos isolados de protestos estudantis que ocorrem em grandes cidades desapareceram como que por magia. Ou, para ser mais preciso, eles morreram nas áreas privilegiadas das cidades. Os organizadores dos protestos contra o governo tinham assegurado ao mundo que o carnaval não aconteceria, e que a tradição de viajar para as praias caribenhas seria cancelada, desde que "a insatisfação do povo" tinha chegado um clímax. Um pouco mais e o regime iria ruir, o Presidente Nicolás Maduro e seus camaradas fugiriam para Cuba, e o país voltaria a ser uma "verdadeira democracia". Os protestos foram amplamente cobertos pelos principais canais de televisão no oeste e, agora –silêncio total. Os venezuelanos estão celebrando e relaxando.

Um papel importante na informação e guerra psicológica contra a Venezuela pertence às agências de inteligência dos EUA. Toda a presidência de Hugo Chávez transcorreu em meio a uma severa guerra de informação na qual os EUA colocaram grande ênfase a fim de comprometer a própria idéia de construir um socialismo do século XXI na Venezuela. Chavez nunca prometeu um rápido sucesso nessa jornada; mas, sua bem pensada política social alcançou muitas coisas. De acordo com as pesquisas de opinião, os venezuelanos estão entre algumas das pessoas mais felizes no hemisfério ocidental.

As conquistas da Revolução Bolivariana, em matéria de cuidados de saúde, educação e a construção de habitações, garantiram o apoio popular de Chavez. Uma sólida política interna tornou possível para Chavez combater com êxito as operações subversivas dos EEUU, não só na Venezuela mas na arena internacional também. Um dos pontos focais da guerra de informação foi a criação do canal TeleSur TV, com o apoio dos países latino-americanos aliados, e a criação subseqüente da estação de rádio RadioSur. Redes locais de rádio e televisão foram organizadas em toda a Venezuela, e um estúdio de cinema nacional foi aberto, o qual produz longa-metragens sobre temas patrióticos. Um novo filme venezuelano aparece nas telas do país quase toda semana, atraindo tantos espectadores como filmes de ação de Hollywood. Filmes documentários também são liberados, os quais expõem a política dos Estados Unidos na América Latina, incluindo a apreensão dos campos petrolíferos e a remoção dos políticos que Washington acha discordantes.

Após a morte de Chávez, a guerra de informação e propaganda contra seu sucessor – Nicolás Maduro – tornou-se ainda mais difundida. Washington decidiu que tinha chegado o momento oportuno para derrubar o regime. Isso envolveu todo o arsenal de desestabilização de Washington– de paramilitares colombianos infiltrando o país para realizar ataques terroristas, à sabotagem econômica e financeira e ao uso de sites das redes sociais na Internet.

Falando na ONU, o Ministro de Negócios Estrangeiros da Venezuela, Elias Jaua, disse que a mídia da oposição venezuelana e estrangeira está se envolvendo em uma campanha ativa para derrubar o Presidente Maduro. Jaua explicou depois que ele estava se "referindo a bem preparadas campanhas que estavam sendo implementadas através de redes de televisão influentes." Ele observou que proeminentes figuras do mundo da arte europeia e americana, "que nem sabem onde a Venezuela se localiza", estavam sendo usadas para comprometer o governo. As recentes declarações na cerimônia de entrega do prêmio Oscar, por exemplo.

Em particular, isso se refere ao canal de televisão CNN, que não está sendo usado pela CIA apenas para distribuir informações falsas sobre a Venezuela, mas também para desenvolver estereótipos negativos do governo venezuelano e do Presidente Maduro. Também tem havido cobertura tendenciosa dos protestos de rua dos estudantes, os quais a CNN descreveu como pacíficos, sem mencionar os protestos pelos grupos de estudantes militantes que bloquearam as ruas, incendiaram carros, atacaram policiais e ameaçaram a infra-estrutura urbana, incluindo o metrô. Entre outras coisas, os ativistas da oposição estão obstruindo as estradas com farpas de metal feitas de pregos, causando um aumento acentuado de acidentes de trânsito. Há também a prática de estender fios de nylon nas estradas para derrubar os chamados motorizados – motociclistas que entregam mercadorias, medicamentos, cartas e assim por diante. Esses motociclistas são geralmente leais às autoridades e são, portanto, vistos pela oposição como uma força hostil. A CNN, no entanto, não relata esses tipos de detalhes.

Os meios de comunicação internacionais também estão mantendo silêncio sobre os esforços do Presidente Maduro para estabelecer um diálogo pacífico na Venezuela e sua busca por um entendimento mútuo com a oposição e aqueles círculos oligárquicos do país que têm organizado, e em particular estão financiando, uma prolongada campanha de desobediência civil. A tolerância das autoridades venezuelanas cada vez mais está sendo percebida como uma fraqueza.

Como resultado da tendenciosa e às vezes até inflamatória cobertura dos eventos na Venezuela, os correspondentes da CNN foram expulsos do país. Os jornalistas da Associated Press, daAgence France-Presse, da Agência EFE, da Reuters e outros também estão dando uma interpretação tendenciosa dos acontecimentos na Venezuela. Eu não consigo pensar em um único momento em que os jornalistas ocidentais reconhecidos na Venezuela mostraram um pouco de independência discernível na sua interpretação dos fatos. Um alinhamento geral com forma de pensar de Washington, na avaliação de políticos e de eventos internacionais, é característico de quase todo o corpo de jornalistas ocidentais no país.

O governo de Maduro está fazendo tudo que pode para contrabalançar a propaganda hostil com que Washington está tentando agravar a situação na Venezuela, obtendo assim um pretexto para interferir diretamente nos assuntos internos do país. Avisos e ameaças contra o governo venezuelano têm sido emitidos repetidamente pelo governo dos Estados Unidos: foi pedido que o governo libertasse os estudantes presos durante os protestos de rua, e que o governo se sentasse para conversar com a oposição. Barak Obama mencionou isto durante uma reunião com os colegas canadenses e mexicanos emToluca (México) em 20 de fevereiro de 2014. Uma declaração do senador republicano John McCain parecia um ultimato: "Precisamos estar prontos para usar a força militar para entrar na Venezuela e estabelecer a paz lá." O Senador observou que a operação poderia envolver os soldados da Colômbia, do Peru e do Chile. Além disso, ele salientou que existem líderes democráticos na Venezuela que estão totalmente preparados para assumir a responsabilidade de governar o país com o pleno consentimento dos EEUU e dar-lhe liberdade. McCain também explicou exatamente por que Washington precisa de "democratas fantoche" na Venezuela. Primeiro e acima de tudo, para garantir a entrega rápida de hidrocarbonetos para os EUA. As entregas de petróleo do norte da África e do Oriente Médio geralmente levam 45 dias; mas, apenas cerca de 70 horas da Venezuela.

Para explicar a situação no país e a posição do governo venezuelano, o Ministro das Relações Exteriores Elias Jaua já fez uma turnê de países da América Latina e Europa, enquanto o Ministro da Energia venezuelano Rafael Ramirez reuniu-se com o presidente russo Vladimir Putin e membros do governo chinês.

A Presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner afirmou que existe uma ameaça real de um golpe de estado"brando" na Venezuela: "Eu não estou aqui para defender a Venezuela, ou o Presidente Nicolás Maduro. Estou aqui para defender o sistema democrático de um país, assim como fizemos com a Bolívia, Equador, ou com qualquer outro país na região, não importa se eles são da esquerda, da direita. A democracia não pertence à direita ou à esquerda; democracia é respeitar a vontade do povo. Seria fatal para a região, para os grandes avanços de integração que a América Latina tem feito nos últimos anos, se deixássemos que ventos estrangeiros varressem e destruissem nosso país fraterno."

Cristina Fernández lembrou também que houve 19 eleições na Venezuela durante os últimos 14 anos, das quais apenas uma foi perdida pelo partido no poder. Em conformidade com a Constituição, um referendo poderia ser realizado em 2016. Esta é a única maneira legítima de mudar o governo. A grande maioria dos líderes latino-americanos é da mesma opinião de Cristina Fernández.

Analistas políticos estão prestando atenção para o calendário dos esforços dos EUA para substituir os governos da Venezuela e da Ucrânia. Washington quer mostrar ao mundo que ainda é uma superpotência capaz de dirigir o curso dos acontecimentos em diferentes partes do mundo na direção que quiser. Obama gostaria de concluir sua presidência com vitórias espetaculares na Europa Oriental e na América Latina: transformando a Ucrânia em um Estado satélite, o que garantiria a presença militar dos Estados Unidos nas fronteiras da Rússia, e efetuando uma mudança significativa na Venezuela a fim de abortar todos os projetos independentes de integração latino-americana…

Nil Nikandrov

Tradução 
Marisa Choguill

Os EUA contra a Venezuela: a Guerra Fria esquenta | Brasil 24/7

25/02/2014

Deutsche Bank, no Brasil ou na Grécia, como pirata colonial

Filed under: Alemanha,Deutsche Bank,Imperialismo Colonial — Gilmar Crestani @ 7:41 am
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Quem quer saber mais sobre o papel da Alemanha na crise grega, leia aqui: Grecia es del Deutsche Bank. O papel do Banco Central Alemão na crise européia foi equivalente à divisão de Panzers no norte da África, na Segunda Guerra…

Banco usado por Maluf devolverá US$ 20 milhões aos cofres públicos

Deutsche Bank, que recebeu recursos desviados da Prefeitura de SP, faz acordo com Promotoria

Deputado diz que seu nome não é citado na ação e afirma que não tem e nunca teve conta bancária no exterior

FLÁVIO FERREIRAMARIO CESAR CARVALHODE SÃO PAULO

O Deutsche Bank fechou um acordo com o Ministério Público e a Prefeitura de São Paulo para indenizar os cofres públicos em US$ 20 milhões (R$ 47,6 milhões) por ter sido usado para movimentar valores que, segundo a Promotoria, foram desviados pelo ex-prefeito Paulo Maluf (PP-SP) entre 1993 e 1998.

Como a Folha antecipou, o banco alemão aceitou pagar a indenização em troca da garantia de que não será alvo de ação judicial.

Em um processo, o Deutsche poderia ser acusado de negligência porque a família Maluf circulou em contas do banco mais de US$ 200 milhões que foram desviados de obras públicas, segundo a Promotoria. A indenização equivale a 10% desse total.

O promotor Silvio Marques, responsável pelo acordo, sugere que os recursos sejam aplicados na criação do parque Augusta, na rua homônima, em São Paulo. A desapropriação da área pode custar até R$ 100 milhões.

O acordo prevê que a indenização destinada à prefeitura seja usada em parques, creches ou outros equipamentos públicos.

Maluf afirma em nota que "não é réu e nem está citado no processo mencionado pelo Ministério Público". Ele diz que "não tem e nunca teve conta em banco do exterior".

A indenização será dividida: US$ 18 milhões vão para a prefeitura, e o Estado, que sustenta o Ministério Público, receberá US$ 1,5 milhão. Serão destinados US$ 300 mil ao Fundo Estadual de Interesses Difusos e US$ 200 mil para o pagamento de perícias em processos contra Maluf.

O acordo ainda deverá ser ser aprovado pelo Conselho Superior do Ministério Público e pela Justiça paulista.

O DESVIO

A Promotoria diz que US$ 344 milhões (R$ 808 milhões)foram desviados das obras da avenida Água Espraiada (atual Jornalista Roberto Marinho) e do túnel Ayrton Senna (zona sul) durante a gestão de Maluf (1993-1996) e nos dois anos seguintes.

Após passar por uma conta nos Estados Unidos, cerca de US$ 200 milhões foram para contas de duas empresas controladas pela família Maluf no Deutsche Bank de Jersey, paraíso fiscal britânico.

Desse valor, US$ 92 milhões retornaram à Eucatex, empresa da família Maluf, por meio de uma operação financeira do banco.

Foi o Deutsche que avisou as autoridades de Jersey sobre suspeitas em torno do dinheiro, segundo Marques.

Em novembro de 2012, a corte de Jersey condenou as empresas atribuídas a Maluf e seus familiares a devolver US$ 32 milhões à prefeitura por serem fruto de desvios. A sentença de Jersey aponta que Maluf participou das fraudes nas obras da capital.

Agora, a Promotoria vai buscar acordos com outros três bancos pelos quais circulou o dinheiro desviado e espera conseguir mais US$ 70 milhões em indenizações. Os bancos são: UBS e Citibank da Suíça e Safra dos EUA.

12/12/2013

E de repente acabou a rebeldia…

Filed under: Imperialismo Colonial,Síria — Gilmar Crestani @ 9:07 am
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siria

EUA e Reino Unido suspendem a ajuda militar aos rebeldes sírios

Respondem assim à tomada de um arsenal por parte de uma milícia islamita

O Exército Livre Sírio está enfraquecido em duas frentes, o regime e os jihadistas

David Alandete Jerusalem 11 DEZ 2013 – 15:23 BRST

Há apenas três meses, tratavam de convencer seus parlamentos da necessidade de um ataque contra o regime de Bachar el Asad para enfraquecê-lo e mudar o rumo da guerra na Síria. Nesta quarta-feira, afastaram-se um passo a mais dos rebeldes moderados, os mesmos que, no passado, foram elevados à categoria de interlocutores e representantes legítimos da cidadania síria. Os governos dos Estados Unidos e da Grã-Bretanha anunciaram a suspensão do envio de ajuda não letal – equipes de comunicação, coletes anti-balas, material médico – ao norte do país, após a Frente Islâmica, um grupo de nova formação, assaltar e saquear no sábado e no domingo vários arsenais do Exército Livre Sírio cerca da fronteira com Turquia.

Segundo fontes diplomáticas norte-americanas no Oriente Médio, a medida foi tomada para evitar que algum tipo de material “acabasse em mãos erradas”, isto é, das milícias islamitas que foram ganhando terreno dos opositores moderados nos últimos meses. A Frente Islâmica, uma união de sete brigadas que há alguns meses apenas, cooperaram com o Exército Livre, assaltou no fim de semana o quartel do rebelde Conselho Militar Sírio e um depósito de armas na localidade de Bab ao Hawa, no noroeste da Síria. Segundo um relatório do Observatório Sírio de Direitos Humanos foram apreendidos um armamento antiaéreo e antitanque.

Após um ano de guerra na Síria, em março de 2012, a Casa Branca começou a suspender o envio de ajuda militar aos rebeldes. Desde então, só autorizou pontualmente o envio de equipamento de assistência, não armas ou munição. Além disso, a CIA treinou vários grupos de rebeldes sírios na Jordânia, porém sem entregar-lhes qualquer armamento. Em uma visita a Jordânia, em março deste ano, o presidente norte-americano, Barack Obama, já expressou sua resistência a intensificar a ajuda aos rebeldes pela ascensão do jihadismo entre as categorias opositoras. “Me preocupa muito que a Síria se converta em um enclave para o extremismo, porque os extremistas são cultivados no caos, crescem em Estados frustrados, nos quintais do poder”, disse.

O Exército Livre Sírio fica assim cada vez mais encurralado entre duas frentes. Por um lado, o regime não deixa de ganhar terreno com a tomada da localidade de Qusair, na fronteira com o Líbano, no final de maio. Por outro, os jihadistas têm se arraigado e impuseram sua lei nas zonas tomadas pelos rebeldes no norte do país, sobretudo em Alepo e Raqqa. “Esperamos que nossos aliados reconsiderem e esperem em poucos dias que a situação se esclareça”, disse em um comunicado o porta-voz do Exército Livre, Louay Meqdad.

EUA e Reino Unido suspendem a ajuda militar aos rebeldes sírios | Internacional | Edição Brasil no EL PAÍS

06/11/2013

ALCA-lá!

Filed under: ALCA,EUA,Imperialismo Colonial — Gilmar Crestani @ 8:28 am
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A ocho años del “No al ALCA”

Jorge Taiana *

Lecciones de una cumbre histórica

A 8 años de aquel 5 de noviembre de 2005 en el que Mar del Plata fue escenario de un renacimiento regional que nos marcaría para siempre a los países del sur del continente, quiero destacar el valor de aquel hecho que nos encontró diciéndole NO al intento de Estados Unidos por crear en nuestra región un Area de Libre Comercio de las Américas (ALCA) que fuera funcional a sus intereses y no atendiera nuestras necesidades particulares como países de desarrollo medio o en vías de desarrollo.

Viendo hoy cómo ha cambiado el mundo desde ese noviembre de 2005 hasta hoy, tenemos algunas reflexiones para hacer. He recordado varias veces en estos años un momento crucial que me tocó vivir como coordinador nacional por parte de la Argentina en esa cumbre, cuando las negociaciones se iban tensando por la proximidad del encuentro entre los presidentes, me reuní con el presidente Kirchner para contarle el estado de los debates y el incremento de las presiones por parte de los defensores del ALCA, y cerró todo margen de duda con respecto a la postura que tendríamos que tener los negociadores argentinos. Me dijo que él no haría nada que fuera contra el pueblo y que ésa era la posición argentina en esa cumbre.

Tenemos que señalar que el ALCA fue una iniciativa de Estados Unidos que traía larga historia. Todo lo que había a principios de la década pasada en la región era un proceso llamado ALCA que pretendía dar respuesta a la globalización, impulsado y conducido por Estados Unidos, en función de sus necesidades.

Esta propuesta había surgido con el presidente Bush padre y luego continuó en el mandato de Clinton. En la primera cumbre, realizada en 1994 en Miami, ningún país se opuso, salvo Cuba, que no estaba invitada. Tampoco nadie se opuso en 1998, en Santiago de Chile, y en 2001 en Quebec, Canadá, el único que se mostró en desacuerdo fue Chávez. La Argentina, en esa cumbre de 2001 representada por De la Rúa, fue la que propuso ser sede para la firma del ALCA. Ese era el contexto previo al encuentro de Mar del Plata: todo listo para que Estados Unidos cumpliera, una vez más, con su objetivo de consolidar un área comercial con nuestros países, que no lograrían su desarrollo propio ni podrían trabajar en virtud de su integración regional. Lo que se estaba debatiendo era un modelo de integración frente a un mundo globalizado. Era un modelo que contemplaba el liderazgo hegemónico de Estados Unidos y la subordinación de nuestras economías. Nosotros preferimos construir un modelo de integración basado en nuestras propias fuerzas, entre iguales. Consideramos que eso nos iba a dar más autonomía e iba a ser mejor para la defensa del interés nacional.

El debate acerca del rumbo del Mercosur y por qué había que cambiar la matriz comercialista que se había construido en los ’90 era algo que ya estaba presente desde que asumimos, en el año 2003. Hubo ahí un elemento fundamental y fue la decisión política de Argentina y Brasil de cambiar el eje del debate. Lula y Néstor entendieron que la Argentina debía salir de su crisis a través de su desarrollo industrial y, para cumplir con ese objetivo, Brasil era un actor fundamental. Lula y Néstor decidieron dar un giro en el modelo de relación bilateral y apostaron a ser socios, y no meros importadores o exportadores de productos. Ambos apostaron fuertemente por una integración productiva, una alianza estratégica que sirviera a los intereses de nuestros pueblos y a la región en su conjunto.

Fue en las negociaciones previas a la cumbre de 2005, cuando los cuatro países del Mercosur (Argentina, Brasil, Paraguay y Uruguay) junto con Venezuela, que nos opusimos gracias a la convicción de Néstor para enfrentar a los poderosos, y debemos reconocer que esa firmeza y esa convicción en la unidad latinoamericana fue la que impulsó el posterior nacimiento de la Unión de Naciones del Sur (Unasur).

Podemos decir, sin riesgo de equivocarnos, que la cumbre de Mar del Plata fue un punto de inflexión en la historia de nuestros países y lo que después conformamos en la Unasur, que tuvo como primer secretario general a Néstor, en reconocimiento por su firmeza a la hora de trabajar por la integración regional.

Además del rol de Néstor y el papel clave que jugaron Hugo y Lula, siempre destaco el lema de esa cumbre porque también considero que fue fundamental: “Crear trabajo para fortalecer la democracia y combatir la pobreza”. Esa cumbre no sólo debatió y le dijo NO al ALCA sino que fue la prueba de que la región empezaba a debatir qué clase de democracia quería para sí, y cuáles eran sus prioridades en medio de nuevos desafíos globales.

Es por todos estos elementos que sirve recordar lo que pasaba hace tan sólo 8 años en Mar del Plata, cuando cinco países nos plantamos ante otros 29 con la convicción de estar cuidando el interés nacional y sembrando las bases de lo que después consolidaríamos como región sudamericana. Hoy, que el mundo sufre los embates de una crisis que no termina de superarse, podemos confirmar que la firmeza de hombres como Néstor Kirchner, Lula da Silva y Hugo Chávez nos ha ayudado a mantenernos en pie, poder trabajar por el bienestar de nuestros pueblos y conservar nuestras autonomías que nos permitan construir nuestro propio destino.

* Ex canciller. Legislador electo y director del Centro Internacional de Estudios Políticos de la Unsam.


Adela Segarra *

Un corazón que nace en Mar del Plata

Un 5 de noviembre de 2005 se marcó un punto de inflexión en nuestra democracia y en nuestro proyecto de país. Un 5 de noviembre de 2005 ocurrió el hecho maldito para el mundo unipolar, porque aquella cumbre del pueblo movilizado y de un Bush estancado en un barco en el Atlántico escribió una nueva página en el derrotero de la independencia de Latinoamérica.

Como marplatense reivindico que ese hecho haya trascurrido en nuestra ciudad. La ciudad de Mar del Plata es hoy una parte de nuestra historia, que seguramente nuestras nietas y nietos verán y estudiarán en diversos soportes, tal como lo hicimos en libros de texto con el combate de San Lorenzo, el encuentro en Guayaquil, el cruce de los Andes. Necesitamos dimensionar en toda su magnitud el significado del quiebre que se produjo durante esas jornadas, con la lógica dominante de Estados Unidos. Parafraseando estrofas de nuestro himno: “Se levantan en la faz de la tierra nuevas y gloriosas naciones”.

Porque más allá del explícito rechazo al ALCA repitiendo la voz de “alcarajo”, este movimiento, interpretado por Néstor y Chávez, nos llevó a dar un paso fundamental para dar institucionalidad al proceso de Unidad Latinoamericana. El escenario de nuestra ciudad dio el clima necesario para que lo creamos posible, para parir el sueño de los libertadores.

Parimos la Unasur, la Celac, parimos un bloque abierto constituido para fortalecer la integración en beneficio de los habitantes de la región. Un grupo de países que se alinean con el multilateralismo, la preservación y defensa de la soberanía nacional, la integración en todos los niveles, el bienestar de los pueblos, la reducción de las asimetrías y la vigencia de la democracia, así como una agenda social que busca la superación de los desequilibrios, la ciudadanía su-damericana y el reconocimiento de la diversidad étnica y cultural.

En esa tarde húmeda, soplando tres veces al viento para pedirle al cielo que frene la lluvia, y dándoles lugar a tantos abrazos que nos daban la fuerza necesaria para sostener aquella decisión, sabíamos que lo mejor estaba por venir, sabíamos que, como cantaba Silvio en el escenario, la era estaba pariendo un corazón.

* Diputada nacional. Referente nacional del Movimiento Evita.

Página/12 :: El país :: A ocho años del “No al ALCA”

Hace ocho años se enterraba el ALCA

Por Atilio A. Boron

Para recordar: este 4 de noviembre, se cumplieron ocho años de una fecha memorable para las luchas antiimperialistas de nuestra América. En ese mismo día, pero del año 2005, se enterraba en Mar del Plata el más ambicioso proyecto de Estados Unidos para América latina y el Caribe: la creación del ALCA, el Acuerdo de Libre Comercio de las Américas. Fue una batalla decisiva librada en el marco de la IV Cumbre de Presidentes de las Américas, en la cual había una ausencia que brillaba enceguecedoramente: Cuba, pero que estaba presente y hablaba nada menos que por la voz de Hugo Chávez.

Pese a que en la agenda temática previamente acordada no se contemplaba discutir la propuesta del ALCA, Estados Unidos –con la ayuda de su socio/peón, Canadá– trató de imponer el tema y lograr un voto positivo en la Cumbre que abriese de par en par las puertas al proyecto imperialista. Este proponía instaurar la más irrestricta liberalización comercial bajo la forma de un tratado global de libre comercio –un TLC para las Américas– que, como enseña la experiencia práctica de países como México (la economía con mayor período de vigencia del TLC), Colombia, Perú y Chile, sólo profundizaría los lazos de dependencia, la vulnerabilidad externa, la extranjerización de las economías, la pobreza y la polarización social y el saqueo de los bienes comunes de la región. No es casual que sean precisamente los países “beneficiados” por los TLC aquellos en donde más se agitan las protestas populares del continente. Como lo recordara Eduardo Galeano, el libre cambio cristaliza la división internacional del trabajo en la cual algunas economías se especializan en ganar y otras en perder. De eso se trataba el ALCA, y eso es lo que fue derrotado en Mar del Plata.

Al pronunciar el discurso de apertura de las sesiones de la Cumbre, Néstor Kirchner se manifestó en contra de la pretensión de incorporar el tratamiento del ALCA en las deliberaciones,lo que provocó la insistencia de Canadá, acompañado por los gobiernos conservadores de México (presidido por Vicente Fox); el de Panamá (presidido para su eterna deshonra por Martín Torrijos, que traicionó el legado de su padre, Omar Torrijos, quien recuperó el canal de Panamá de manos yanquis); y, sibilinamente, por el presidente de Chile, Ricardo Lagos. Pero las intervenciones posteriores de Luiz Inácio Lula da Silva, Tabaré Vázquez y, sobre todo, de Hugo Chávez, liquidaron definitivamente ese proyecto y en la declaración final quedó claro, en negro sobre blanco, que no había acuerdo sobre el tema y que, por lo tanto, quedaba postergado indefinidamente. Fue, dicho en términos diplomáticos, el certificado de defunción del ALCA.

La de Mar del Plata fue una batalla de extraordinaria importancia y que algunos sectores atrasados de la izquierda y del “progresismo” no aprecian en su justo término porque subestiman el papel de la lucha antiimperialista para la construcción de una alternativa socialista en nuestros países. El estratega de ese combate fue Fidel, y el gran mariscal de campo fue Chávez, contando con la importantísima colaboración de Néstor Kirchner y Lula. Muy difícil para éstos, por diferentes razones. Para Kirchner, porque era el anfitrión de la Cumbre y tenía que desairar a Bush en su propia cara, y lo hizo; y para Lula, porque dentro de su gobierno había sectores –¡que todavía los hay en el gobierno de Dilma!– que favorecían al proyecto y que creen que Brasil nada tiene que hacer con América latina. La batalla que estos tres libraron dentro de la Cumbre fue impulsada y facilitada por la extraordinaria movilización popular que se dio cita en Mar del Plata, producto de la eficacia de la larga campaña continental de “no al ALCA” y del generalizado repudio que suscitaba la figura de George W. Bush, verdugo de Irak y Afganistán y, tal como lo denunciara Noam Chomsky, uno de los más sanguinarios criminales de guerra de los últimos tiempos. La Contracumbre de los movimientos fue un factor de enorme gravitación para frenar, desde afuera del recinto donde se reunían los presidentes, la iniciativa norteamericana y para persuadir a los gobernantes dubitativos o inclinados a aceptar las órdenes del imperio que aprobar el ALCA significaría poco menos que provocar un incendio en sus propios países. Poco después, Evo Morales accedería a la presidencia de Bolivia y al año siguiente haría lo propio Rafael Correa en Ecuador, alterando significativamente el mapa sociopolítico de América latina y ratificando el retroceso del imperialismo en la región. Para concluir: hay muchas razones para celebrar un nuevo aniversario de esa gran victoria de nuestros pueblos, que en su abrumadora mayoría fue ignorado por los medios de comunicación. Sería una desgracia que tamaña proeza popular cayera en el olvido.

Página/12 :: El mundo :: Hace ocho años se enterraba el ALCA

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